Pubblicato su: Vita Pastorale - Rubrica “Dove va la chiesa” - Novembre 2018
di ENZO BIANCHI
Passati pochi mesi dall’elezione di papa Francesco, quando ormai si potevano scorgere i tratti salienti del suo pontificato, avevo detto, scritto e ripetuto che se nella vita ecclesiale fosse stato rafforzato il primato del Vangelo e se il papa avesse tentato di realizzare una riforma, una conversione della chiesa, allora le potenze demoniache, sentendosi messe al muro, si sarebbero scatenate. Non sarebbe dunque sopraggiunto un tempo di pace, una situazione idilliaca in cui il Vangelo avrebbe brillato con più efficacia, ma piuttosto sarebbe apparso il segno della croce. Così è avvenuto.
Viviamo ormai in uno stato di guerra in cui violenza verbale, calunnie, accuse sembrano aumentare ogni giorno. Dobbiamo riconoscere che questa guerra è la guerra del diavolo che, secondo la Scrittura, porta il nome di divisore, accusatore, mentitore. È una guerra che – almeno qui, nelle terre di antica cristianità – non è combattuta da nemici esterni al cristianesimo, bensì da cattolici contro altri cattolici. Nella vita ordinaria della chiesa ormai è consuetudine cercare l’opposizione, tacciare di eresia chi ha semplicemente una parola cristiana differente, accusare moralmente quelli che vengono percepiti e classificati come avversari. Calunnie, pettegolezzi, chiacchiere che vogliono diffamare, colpire e delegittimare chi esercita un’autorità nella chiesa.
In questi ultimi mesi ho sentito spesso esclamazioni come queste: “Non ne possiamo più! Adesso ne abbiamo abbastanza! Quando finirà questa febbre di cercare capri espiatori?”. Oggi sono soprattutto i presbiteri a essere colpiti, denigrati e messi in stato di continuo sospetto. Per responsabilità gravi e delittuose di alcuni, finiscono per essere colpiti tutti. E non mi sfugge che in questa guerra – combattuta soprattutto sui campi di battaglia dei media, di internet e dei social – noi stessi come uomini e donne di chiesa finiamo per favorire un effetto moltiplicatore degli scandali. Non si tratta di nascondere la verità, ma di negarsi al gioco delle attese scandalistiche che ammorbano l’aria.
In questa guerra, lo stesso papa Francesco è diventato un bersaglio privilegiato: critiche verso gli ultimi papi si erano già levate, ma Francesco viene delegittimato, è sospettato di non essere fedele alla tradizione cattolica, di essere ripiegato sulla mondanità imperante, di annacquare la fede secondo le attese del mondo. È vero che lui dice di essere in pace e che, da uomo di preghiera quale è, sceglie il silenzio piuttosto che rispondere violentemente alla violenza scatenata contro di lui, ma questa situazione fa soffrire molti cristiani e rischia di scandalizzare.
Il clima è tale che ormai un sospetto – non l’accusa per un delitto perseguibile dalla legge dello stato, ma un semplice sospetto – di comportamento immorale da parte di un presbitero può turbare la vita di molti e portarli a situazioni estreme, impossibilitati come sono a difendersi di fronte a un’accusa resa pubblica. Sembra ci sia una corsa a cercare dei colpevoli, qualcuno da accusare, una persona da calpestare.
Il papa non si difende, ma chiede ai cattolici di vigilare di fronte a questo agire diabolico che vuole provocare divisione, scisma, contrapposizione all’interno della chiesa. Chiede di pregare, rivelando la qualità di questa lotta che il cristiano deve sostenere contro le potenze demoniache. L’urgenza per i cattolici è l’ascolto del Vangelo, che chiede non di nascondere il male, ma di usare misericordia verso chi lo ha commesso; non chiede di minimizzare azioni delittuose perpetrate da ministri della chiesa, ma chiede di cercare di impedirne la reiterazione con tutti i mezzi legittimi; non chiede di castigare i peccatori, ma di aiutarli a ritrovare la dignità umana da loro stessi calpestata. Se “tolleranza zero” significa che non si possono ammettere o nascondere delitti, questo è secondo giustizia e parresia, ma se volesse dire “nessuna misericordia verso il peccatore” allora non sarebbero parole cristiane. Un vescovo emerito, mio grande amico da decenni, p. Gérard Daucourt, ha scritto un libretto dal titolo significativo: “Misericordia anche per i preti!”. Sì, perché ormai i presbiteri sembrano gli unici che non meritano misericordia e non possono esserne i destinatari.
Eppure noi cristiani conosciamo bene il comandamento “Non pronunciare falsa testimonianza verso il tuo prossimo”. Da questa ingiunzione dobbiamo apprendere la legge della parola che chiede libertà, sincerità, lealtà, altrimenti la parola stessa degenera e crea corruzione e morte nei rapporti interpersonali. Tutti noi conosciamo questo rischio per averne fatto esperienza: nelle nostre vite, in famiglia, nelle storie d’amore, nell’amicizia, nei rapporti nella vita sociale, nella vita comunitaria ecclesiale… La maldicenza è già falsa testimonianza contro gli altri: non c’è bisogno di un contesto giuridico per accusare, calunniare, instillare sospetti, denigrare l’altro. Vizio quotidiano, al quale magari non facciamo caso, ma che in verità è un vizio grave, che incide fortemente sui rapporti, contraddicendo il bene che può essere riconosciuto e attestato.
Maldicenze e calunnie lasciano sempre tracce, come ricorda l’adagio classico ripreso da Pierre-Augustin de Beaumarchais ne Il barbiere di Siviglia: “Calunniate, calunniate: qualcosa resterà”. Nella chiesa, nelle comunità questo chiacchiericcio malsano sembra inquinare le parole scambiate ogni giorno. E quando la menzogna si diffonde – soprattutto attraverso i media – non solo la fiducia è ferita e conculcata ma lascia il posto alla diffidenza, alla paura dell’altro.
Noi cristiani non dovremmo mai dimenticare che quando pronunciamo una parola su chi ci è fratello o sorella dovremmo sempre dirla per l’altro e non contro l’altro. In questo senso può essere addirittura malefico dire la verità se questa impedisce la carità anziché favorirla: la sincerità verbale può pervertirsi in menzogna etica. Talora, ad esempio, tacere il peccato commesso da un altro e quindi usargli misericordia – se tale peccato non è favorito dal nostro silenzio – non è menzogna, ma obbedienza alla verità come fedeltà e misericordia. Scriveva efficacemente Dietrich Bonhoeffer: “Colui che pretende di ‘dire la verità’ sempre e dappertutto, in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità … Costui in realtà distrugge la verità vivente tra gli uomini. Egli offende il pudore, profana il mistero, viola la fiducia, tradisce la comunità in cui vive, e sorride con arroganza sulle macerie che ha causato … Esige delle vittime, e si sente come un dio al di sopra delle deboli e fragili creature, ma non sa di essere al servizio di Satana”(Etica, p. 309).
Sì, oggi nella chiesa alcuni invocano la sincerità, la trasparenza e in nome di queste esigenze accusano l’altro di peccato anche quando questo non è un reato secondo le leggi dello stato. Intransigenti? Duri? Giusti incalliti? No, solo spioni del peccato altrui, che non hanno mai conosciuto il proprio peccato e, da sedicenti giusti, vedono negli altri solo dei peccatori. Questa guerra ecclesiale nasce dalla banalità del male: una chiacchiera, un sospetto, qualche parola vana diventano un incendio, come ci ricorda l’apostolo Giacomo nella sua Lettera: “La lingua è un fuoco, il mondo del male! La lingua è inserita nelle nostre membra, contagia tutto il corpo e incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dall’inferno” (Gc 3,6).
Non è questo il fuoco purificatore di cui abbiamo bisogno oggi, dentro la chiesa e nei suoi rapporti con la società: è invece il fuoco dell’amore che dobbiamo accendere e custodire, il fuoco che impedisce alla carità di raffreddarsi (cf. Mt 24,12), il fuoco che riscalda il gelo sceso nel cuore delle vittime e illumina la vergogna senza annientare il peccatore. Un fuoco che è il fuoco dello Spirito.