Pubblicato su: Vita Pastorale - Rubrica “Dove va la chiesa”- Maggio 2018
di ENZO BIANCHI
Quando cerchiamo di leggere la relazione tra parola di Dio contenuta nelle sante Scritture e popolo di Dio, ci risulta evidente che oggi tale legame purtroppo è garantito quasi esclusivamente della liturgia eucaristica domenicale, in cui la proclamazione della Parola e l’omelia del presbitero che presiede l’assemblea raggiungono gli orecchi dei fedeli ascoltatori.
Nonostante la fine dell’esilio della Bibbia dalla comunità cristiana avvenuta con il concilio Vaticano II, non è ancora maturata in ambito cattolico l’assiduità personale con la parola di Dio, tramite la lettura o la lectio divina al di fuori del contesto liturgico. Restano pochi, se si escludono presbiteri e religiosi, quelli che quotidianamente attingono soprattutto al Vangelo per nutrire la loro vita di fede e per orientare il loro agire nella compagnia degli uomini, nella storia, nel mondo. In pochissime comunità la lectio divina comunitaria settimanale e l’omelia nella liturgia eucaristica sono articolate come due momenti distinti, con una propria forma, un proprio stile, un’adeguata collocazione nel ritmo liturgico. Per le comunità cristiane ordinarie, come si diceva, l’omelia domenicale resta l’unica occasione di ascolto e di meditazione della Parola.
Ciò rende importante interrogarsi su come l’omelia è fatta e recepita oggi, essendo un atto decisivo, la cui efficacia e ricezione plasmano la fede e la vita dei battezzati. Che cosa dunque ci sembra urgente precisare? Oggi – va riconosciuto – quasi tutte le omelie vogliono essere ispirate dalle letture liturgiche, in particolare dal Vangelo, e tuttavia poche sono realmente capaci di essere euanghélion, buona e bella notizia comunicata agli uomini e alle donne del nostro tempo.
È vero: è sempre meno attestata un’omelia segnata dal letteralismo, dove cioè la lettera del testo è ridetta senza la fatica dell’interpretazione e del discernimento dello Spirito santo presente nelle Scritture. È ugualmente rara l’omelia che attraversa i testi come siti archeologici, fermandosi cioè in modo noioso alla redazione o all’analisi storico-critica. Si è però ancora lontani dall’assunzione della parola di Dio presente nei testi ma leggibile e comprensibile solo nella storia, solo nell’ascolto del mondo. Il predicatore deve innanzitutto essere un ascoltatore non solo del Signore che parla nelle Scritture ma anche del popolo destinatario della parola, dell’umanità tutta, qui e ora.
Significativamente, nell’Evangelii gaudium papa Francesco ha dedicato un’ampia sezione all’omelia (nn. 135-175), talmente ampia da sembrare sproporzionata rispetto all’intera esortazione, ma lo ha fatto nella consapevolezza del cambiamento necessario in questa diaconia della parola. Tutto il suo insegnamento ruota attorno alla necessità che il predicatore, evangelizzato dalla Parola, sia un evangelizzatore capace di esortare il popolo destinatario dell’omelia. Francesco fornisce anche indicazioni molto pratiche sia per la preparazione, sia per il linguaggio e lo stile da adottare, ma ciò che mi pare più rilevante nella sua esortazione sull’omelia è una duplice urgenza: primato della Parola e primato dell’ascolto concreto, quotidiano. Ascolto sia della comunità cristiana che è “profetica”, capace di sensus fidei, sia dell’umanità che attende una parola in grado di rendere sensata la vita di ciascuno.
Cosa occorre dunque affinché l’omelia sia realmente quella buona notizia che invita alla conversione e spinge ad aderire, a credere a questa Parola ricolma di efficacia, capace di salvezza? In primo luogo occorre guardare a Gesù, nella cui vita umanissima Dio ha voluto rivelarsi. Gesù ha predicato il Vangelo di Dio (cf. Mc 1,14), mostrando di essere abitato da una sapienza (sophía) umana (cf. Mc 6,2), che gli era riconosciuta nel suo annunciare, predicare, dialogare con quelli che incontrava. E se la gente si stupiva del suo insegnamento (didaché), ciò era dovuto all’autorevolezza (exousía) che emanava dalle sue parole (cf. Mc 1,22). Gesù appariva come un maestro, un profeta credibile e affidabile perché vi era coerenza tra il suo vivere e il suo parlare: non c’era frattura tra le sue parole, i suoi gesti e i suoi sentimenti. Questa sua integrità, questa sua pratica umana della fede suscitava l’esclamazione: “Mai un uomo ha parlato come costui” (Gv 7,46). E non perché ci fosse in lui qualcosa di sovrumano, ma proprio per la sua umanità!
In Gesù vi era poi anche la capacità di ascolto degli uomini e delle donne ai quali si sentiva inviato. Per questo andava di città in città, di villaggio in villaggio, predicando la venuta del Regno, annunciandolo e rendendolo prossimo alle persone che curava, guariva e dalle quali scacciava demoni (cf. Mt 9,35; Lc 8,1). Non stava con le pecore dell’ovile ma si sentiva “inviato alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15,24). Aveva compassione delle folle, “perché erano come pecore che non hanno pastore” (Mc 6,34). Manteneva sempre viva questa sua capacità di vicinanza e di compassione, che spesso mostrava anche nel suo interessarsi a chi aveva di fronte, nel porgli domande, ben prima di insegnare.
A immagine di Gesù annunciatore del regno di Dio, il predicatore dovrebbe sempre cercare nei testi su cui è chiamato a parlare la buona notizia, il Vangelo da trasmettere agli ascoltatori. Non dovrebbe dunque predicare ascoltando le proprie emozioni, le proprie urgenze, ma “dire” la buona notizia. Se un’omelia è priva di questa buona notizia, i destinatari provano noia, fastidio, smettono di ascoltare… Aveva ragione lo scrittore cattolico François Mauriac quando annotava: “Non c’è nessun luogo in cui i volti delle persone sono così inespressivi come in chiesa durante le prediche!”. In un’omelia le parole non dovrebbero risultare “una poltiglia melensa e insignificante, come una pietanza immangiabile o, comunque, ben poco nutriente” (mons. Mariano Crociata). Va detto con chiarezza: se non c’è buona notizia, non c’è Vangelo, anche se si predica sul Vangelo!
Purtroppo sovente oggi nelle omelie, sebbene partano dal testo evangelico, prevale una dimensione moralistica, magari nutrita di letture antropologiche o psicologiche ma in ultima analisi colpevolizzante, sempre tesa ad accusare gli ascoltatori, l’assemblea. A volte addirittura sembra che l’omelia sia l’occasione per manifestare le proprie ossessioni (sulla sessualità o su altri temi antropologici), trasformate in accuse scaricate sui destinatari: chi parla in questo modo sembra quasi accecato e non sa discernere che quelle parole di giudizio e di condanna devono innanzitutto essere indirizzate a sé stessi! Si può anche parlare di Gesù Cristo, ma se il discorso si riduce a una lettura fenomenologica del suo dire e operare, non vi è più posto per la buona notizia. In questo caso, meglio un’omelia semplice, che può sembrare poco dotta o dallo stile dimesso, che una predica tesa solo a sedurre e non a chiedere conversione.
Non è facile annunciare il Vangelo, cioè Gesù Cristo, come buona notizia. Per gli intellettuali, in particolare, la tentazione ricorrente è quella di fare omelie prive del Vangelo, ricorrendo invece al proprio bagaglio di conoscenze letterarie o artistiche. Ma se il predicatore è in mezzo al suo popolo, se ascolta gli uomini e le donne della sua comunità e quelli che incontra nel mondo, nella storia, allora è più facile che la parola di Dio venga colta tra le sue parole e così il Vangelo sia annunciato. Papa Francesco, nell’omelia della messa crismale, ha coniato l’espressione “vicinanza di cucina” per chiedere agli annunciatori del Vangelo di stare sempre dove si “cucinano le cose importanti e decisive”, cioè dove si discerne il cibo buono della Parola e si conosce, grazie alla vicinanza alla gente, cosa le manca e di cosa ha bisogno. Certamente, per fare tutto questo occorre soprattutto credere che “il Vangelo è potenza di Dio” (Rm 1,16) che di per sé opera sempre, anche in modo imprevedibile o nascosto; occorre far sentire la presenza di Gesù non sul piano delle idee ma nella concretezza delle relazioni umanissime; occorre credere che la debolezza dell’annunciatore non è un ostacolo ma è una grazia che consente di fare maggiormente spazio al Vangelo. Basta poco, in fondo: basta non vergognarsi del Vangelo di Dio (cf. ibid.), di Gesù Cristo (cf. Mc 8,38; Lc 9,26) dimorando in mezzo, vicino agli uomini.