Pubblicato su: Jesus - Speciale Papa Francesco 5 anni di ponificato - Marzo 2018
di ENZO BIANCHI
Cinque anni di pontificato del papa chiamato dai suoi “fratelli cardinali” dalle periferie urbane del mondo e dalle peripezie delle migrazioni, ma ancor più dal grembo profondo della chiesa. Qualche mese in più del pontificato di un altro papa proveniente da quella stessa matrice pulsante e radicato nel cuore contadino della campagna bergamasca, Giovanni XXIII. Sì, perché la chiesa è realtà molto più viva e diversificata di quanto si sia soliti pensare, una realtà nella quale arde sempre il vangelo, anche quando sembra ridotto a poche braci, pronte però a divampare nuovamente non appena qualcuno ha l’audacia di smuovere le ceneri con il soffio della profezia.
L’età avanzata alla quale è stato eletto papa Francesco fa sì che cinque anni siano molti paragonati alle aspettative – come lui stesso aveva confidato: “Ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve: quattro, cinque anni” – e tuttavia consente di misurare la continuità nel cammino di un pastore di consumata esperienza e di ponderata valutazione della corrispondenza tra scelte operate ed esigenze evangeliche. Così ciò che apparve come una novità inattesa, un nuovo stile, un nuovo soffio nella istituzione del successore di Pietro, prosegue senza contraddizioni o cambiamenti, troppo spesso ipotizzati soprattutto dagli osservatori eloquenti nei mass media.
È forse questa la domanda più adeguata per rileggere cinque anni di pontificato: quale continuità, quale coerenza emerge dalle parole, dai gesti e dallo stile di papa Francesco nell’affrontare l’ampio spettro di speranze e preoccupazioni che abitano il cuore della chiesa e del mondo nel terzo millennio? È vero infatti che Francesco riesce costantemente a sorprendere per le iniziative che intraprende dettando e ribadendo priorità alla chiesa, è vero che in questi pochi anni i mutamenti da lui voluti, indicati e in parte anche attuati sono molti, come emerge dai contributi raccolti nelle pagine che seguono, ma credo siano tutti accomunati da alcune opzioni maggiori e traversali che possono essere evidenziate come caratteristiche del suo ministero petrino.
Innanzitutto una volontà di riforma della chiesa, che va ben al di là di una rimodulazione del funzionamento della curia. Sulle labbra di Francesco abbiamo ascoltato le parole “Ecclesia semper reformanda”, parole inusuali nel magistero papale recente: la chiesa è sempre in stato di riforma. La chiesa – realtà che nella storia è corpo di Cristo perché costantemente purificata dal Signore, ma che è anche realtà umana annoverante peccatori nel suo grembo – abbisogna di ritrovare la “forma” che Gesù Cristo, il suo Sposo, attende da lei, una forma che deve essere coerente con il vangelo, la buona notizia che Gesù sempre annuncia attraverso di essa a tutta l’umanità.
Riforma, per Francesco, è conversione, mutamento e ritorno al Signore, cammino che non può esaurirsi in una riorganizzazione degli assetti ecclesiastici. Purtroppo la ricezione di questa volontà del papa tende a far coincidere riforma della chiesa con riforma della curia romana e anche del modo di esercitare il ministero papale ma, senza un processo di conversione personale, la riforma finirebbe per essere non solo un fallimento, una menzogna. Non a caso il papa evoca sovente la “riforma pastorale”, la riforma missionaria, cioè una riforma che coinvolge l’intero popolo di Dio: in questo processo di ritorno al vangelo anche la curia romana dovrà operare mutamenti, perché il papa stesso l’ha indicata come soggetta a tentazioni e a malattie che lo Spirito può guarire.
Una riforma dunque, in capite et in membris, che eviti il rischio – paventato da p. Yves Congar settant’anni fa – di una “falsa riforma”, una riforma solo di facciata, e conduca invece a una chiesa non mondana, una chiesa che sappia opporre resistenza alle tentazioni del potere, della ricerca del successo, una chiesa che sappia non solo servire i poveri, gli ultimi, ma sia anche capace di imparare alla loro cattedra, una chiesa che sia pellegrina nella carovana dell’umanità verso il regno di Dio.
In questa prospettiva si coglie meglio anche un’altra tematica “trasversale” che Francesco indica alla chiesa tutta: la sinodalità. Nella Evangelii gaudium il papa aveva manifestato l’urgenza di una chiesa più fraterna, senza tuttavia che emergesse il termine “sinodalità”. Però nella celebrazione del sinodo dei vescovi sulla famiglia, scandito in due tappe proprio per permettere un cammino maggiormente comunionale, la sinodalità è apparsa come “il cammino che Dio attende dalla chiesa nel terzo millennio”. È venuta l’ora per la chiesa cattolica di intraprendere un cammino sinodale, cioè un cammino percorso insieme da tutto il popolo di Dio: fedeli, pastori e papa impegnati insieme a essere nella storia la chiesa del Signore nella compagnia degli uomini, pellegrina verso il Regno.
Secondo papa Francesco la sinodalità deve essere promossa a tutti i livelli, fino a diventare uno stile quotidiano e ad attuare nella vita ecclesiale il principio formulato nel medioevo cristiano: “ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere trattato e deliberato”. Francesco ha persino dato un’immagine della chiesa che si è impressa nella mente e nel cuore dei semplici fedeli: una piramide capovolta, con in cima il popolo di Dio e sotto, al suo servizio, i pastori e il papa. L’impegno per una chiesa sinodale costituisce un’autentica novità per la chiesa cattolica, anche se non di facile attuazione: non ci sono solo resistenze aperte, ma anche pigrizie, lentezze, paure per le responsabilità che anche il popolo di Dio deve assumere. Sinodalità significa infatti un mutamento della forma della chiesa cui oggi non siamo preparati: occorrerà educare alla sinodalità, serviranno maturità cristiana, una fede pensata e l’esercizio di una comunione plurale non uniforme, una sinfonia delle differenze.
Infine, un’ulteriore opzione di papa Francesco che percorre le diverse sottolineature approfondite nelle pagine di questo dossier è il desiderio di “una chiesa povera per i poveri”, desiderio che, per sua stessa ammissione, ha determinato anche il nome scelto come vescovo di Roma. Questa connotazione di povertà si declina in due aspetti complementari, entrambi riconducibili al rispetto e alla difesa della dignità di ogni essere umano: da un lato il riconoscimento del diritto universale ad avere “terra, tetto e lavoro” e, dall’altro, la sollecitudine verso i migranti, qualunque sia il motivo del loro esodo dalla propria terra. Una porzione di terra, una casa e un’attività lavorativa non sono solo le condizioni minime per garantire una sussistenza a sé e alla propria famiglia, ma anche il presupposto della dignità cui ogni essere umano ha diritto per potersi sentire collaboratore del Creatore nella custodia del creato affidatogli: poter vivere del lavoro delle proprie mani – e far vivere con esso anche le persone più care – è un nutrimento indispensabile per il cuore e la mente umana, tanto quanto gli alimenti lo sono per il corpo. Per questo papa Francesco vede nei migranti forzati – dalla guerra o dalla fame poco cambia – le persone più vulnerabili e più bisognose non solo e non tanto di un’assistenza nell’emergenza, ma ancor più di una solidarietà umana che sappia riconoscere nell’altro in difficoltà il proprio fratello, la propria sorella in umanità.
Alla luce di questi orientamenti di fondo, ripercorrere le analisi proposte nelle pagine che seguono permette di cogliere a tutto tondo non tanto l’immagine di questo papa giunto “dall’altra parte del mondo”, quanto piuttosto il volto di una chiesa che, come affermò papa Giovanni XXIII nel discorso di apertura del concilio, “preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando”. Forse, a oltre cinquantacinque anni dal Vaticano II e a cinque dall’elezione di papa Francesco, non ci siamo ancora assuefatti a questa semplice, evangelica verità.