Pubblicato su: Vita Pastorale - Ottobre 2017
di ENZO BIANCHI
Venticinque anni sono un arco temporale sufficiente, soprattutto nell’era del “tempo accelerato” che stiamo vivendo, per tracciare un bilancio rispetto a un evento epocale come la pubblicazione del Catechismo universale della Chiesa cattolica (CCC). Tuttavia, proprio il titolo dell’opera presa in considerazione richiede l’indispensabile precisazione iniziale che questa analisi limiterà forzatamente il proprio ambito alla sola Chiesa italiana, nonostante il Catechismo sia stato pensato e realizzato come un’opera destinata all’intera Chiesa cattolica diffusa nei cinque continenti. E si può dire che quello voluto da papa Giovanni Paolo II e promulgato in prima stesura nel 1992 e nella sua versione definitiva nel 1997 è il primo catechismo cattolico realmente “universale”, destinato cioè a una Chiesa ormai presente e consolidata anche al di fuori del suo alveo di antica cristianità, l’Europa. Infatti quando il catechismo “tridentino” venne promulgato da papa Pio V, i suoi destinatari erano sì i parroci dell’intera Chiesa cattolica, ma l’estensione di quest’ultima era praticamente limitata ai paesi dell’Europa. Del resto l’intenzione principale di questa esposizione organica della fede cattolica era quella di contrastare il “Catechismo” di Lutero – è a lui che si deve l’introduzione di questa terminologia – che stava diffondendo le istanze della Riforma protestante a partire dal nord Europa. Lo stesso catechismo di papa Pio X, promulgato nel 1905 e imparato a memoria da generazioni di cattolici per quasi un secolo, aveva come primo destinatario la Chiesa di Roma e solo successivamente venne adottato praticamente da tutte le diocesi, in Italia e all’estero. Ma è a tutti evidente come, almeno fino alla II guerra mondiale, si percepisse la Chiesa cattolica come eminentemente europea e al cattolicesimo europeo si rifacessero anche le Chiese delle Americhe e le ancor più giovani diocesi degli altri continenti.
Ora, la sapiente audacia di papa Giovanni Paolo II volle che un nuovo Catechismo, interamente ripensato a partire dal Vaticano II, fosse elaborato con il concorso di pastori, teologi, biblisti e studiosi del mondo intero, così da poter raccogliere le sfide che un “mondo contemporaneo” sempre più variegato poneva alla Chiesa e da potervi rispondere attingendo al “tesoro di cose nuove e cose antiche” (cf. Mt 13,52) che si trovava ormai disseminato ai quattro angoli del globo. Anche per questo il CCC ha come destinatari non direttamente i singoli fedeli, catechisti o catecumeni bensì i vescovi e le Chiese locali che lo possono usare come testo base per elaborare a loro volta dei testi più adeguati alle differenti realtà culturali, storiche, linguistiche di specifiche aree geografico-ecclesiali. E non si dimentichi che, al suo apparire, il CCC del 1992 si confrontò, in alcune di queste aree, con catechismi “nazionali” che avevano già tentato di rispondere alla pressante esigenza di “inculturare” l’espressione e la trasmissione della fede cattolica. In alcuni casi questo provocò un’accoglienza meno entusiasta del CCC, se non addirittura qualche tensione, poi positivamente risolta anche grazie ad alcune modifiche introdotte nel testo definitivo del 1997. Complessivamente il CCC si è rivelato una sintesi felice e feconda dell’esposizione della dottrina cattolica, in cui la parte dedicata alla liturgia risulta la meglio riuscita per spessore teologico ed efficacia di linguaggio, un’autentica perla lucente in questa sintesi della dottrina cattolica.
Ma allora come si spiega, a distanza di venticinque anni dalla promulgazione del CCC e dopo almeno due decenni di catechesi ad esso ispirata, il permanere di tanta ignoranza sui contenuti della fede, anche in coloro che si professano cattolici praticanti? Come mai assistiamo a quello che alcuni osservatori hanno definito un “analfabetismo religioso di ritorno”? E da cosa deriva l’afonia dei cattolici nella vita politica del paese e la sconcertante rarità di elaborazione di un pensiero cattolico capace di confrontarsi con la società e di “comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”? La progressiva scristianizzazione del tessuto sociale non è un fenomeno unicamente italiano, così come la riduzione della pratica regolare e l’inceppamento della trasmissione della fede da un generazione all’altra anche all’interno delle famiglie sono patologie comuni a tanti paesi di antica cristianità. Eppure alcuni dati paiono particolarmente accentuati in Italia: da un lato l’inusuale rapidità con cui questi fenomeni si sono prodotti in un paese come il nostro persino – se non soprattutto – in aree geografico-culturali un tempo considerate roccaforti cattoliche; d’altro lato secoli di passività del popolo cristiano e la cronica assenza di insegnamento laico e pubblico delle scienze religiose hanno contribuito all’inaridirsi di un pensiero cattolico radicato nella Scrittura e all’affacciarsi di una “religione civile” che ammantava di cattolicesimo una mentalità sempre più appiattita su luoghi comuni e affermazioni identitarie estranei alla parola viva ed esigente del Vangelo. Non emergono ora qua e là militanti “cristiani del campanile” che sono una vera contraddizione ai “cristiani del Vangelo”?
La storica mancanza di assiduità personale e di familiarità con la Parola di Dio – e in particolare con il Vangelo poco letto e ancor meno meditato – ha ripreso progressivamente il sopravvento sull’entusiasmo postconciliare con cui singoli e gruppi di ogni età e condizione avevano vissuto la fine dell’esilio della Parola sancito dal Vaticano II e dalla riforma liturgica. Tuttavia quella stagione ha consentito il ridestarsi della pratica della lectio divina, di una lettura orante della Scrittura che sempre più spesso ha sostituito, nella pratica regolare della preghiera individuale, devozioni particolari o pie meditazioni.
Abbiamo quindi una serie di dati apparentemente contrastanti: al risveglio di interesse per la Parola di Dio nella vita personale si accompagna una mancanza di incidenza del pensiero cattolico nella vita sociale; al relativamente elevato numero di studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola corrisponde un crollo verticale della pratica religiosa e della conoscenza dei fondamenti della fede cristiana; alla globalizzazione delle notizie, degli interscambi commerciali e culturali fa da contraltare un cattolicesimo localista che ignora la dimensione universale dell’annuncio cristiano, non riconducibile ad alcuna cultura specifica. E forse è proprio in queste contraddizioni che emerge l’attualità di un Catechismo universale: non si tratta infatti di mortificare i legittimi ricorrenti tentativi di dare risposte nelle diverse culture e nei diversi linguaggi agli interrogativi specifici che la trasmissione della fede pone a realtà regionali o nazionali, bensì di avere uno strumento efficace e consolidato per verificare la “cattolicità” della fede di ciascuna comunità locale. Una cattolicità che non solo si estende geograficamente all’intero pianeta, ma che mette ogni credente – anche della più sperduta e nascosta parrocchia di un paese politicamente ed economicamente insignificante – in comunione di vita, di fede, di speranza e di carità con generazioni di cristiani che lo hanno preceduto nel cammino di sequela del Signore Gesù e di testimonianza che vale la pena vivere e morire per Cristo. Sì, la comunione cattolica che il Catechismo cerca di promuovere vuole essere comunione con il Vangelo che è Gesù Cristo e con Gesù Cristo che è il Vangelo, la buona notizia per gli uomini e le donne del nostro tempo e di ogni tempo.
Non si dimentichino le parole di papa Francesco indirizzate alla Chiesa italiana in occasione del Convegno nazionale di Firenze: “La dottrina cristiana non è un sistema chiuso, incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha un volto non rigido, ha un corpo dinamico che si smuove e si sviluppa, ha carne tenera che si rinnova: la dottrina cristiana su chiama Gesù Cristo!”.