La Stampa, Tuttolibri
2 aprile 2011
di ENZO BIANCHI
Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani
La Stampa, Tuttolibri, 2 aprile 2011
“E voi, chi dite che io sia?”. A questa domanda di Gesù, è Pietro, voce unificante del gruppo degli apostoli, a rispondere,: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,15-16). Se ci pensiamo bene, è proprio innanzitutto a questo interrogativo essenziale che il successore di Pietro è chiamato in ogni tempo e ancora oggi a rispondere, facendosi interprete della fede della chiesa tutta. Ed è quanto papa Benedetto XVI fa anche con la seconda parte della sua opera su Gesù di Nazaret, affrontando la vicenda di Gesù e della fede dei discepoli “dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione”. Come già per la prima parte di quest’opera di ampio respiro, l’approccio mira a far emergere quel consenso ecclesiale, quel sensus fidei nel leggere la figura di Gesù che ha attraversato la storia della chiesa e che, nel corso dei secoli e fino ai decenni più recenti, ha saputo far tesoro di studi, commenti, interpretazioni, metodologie anche assai diverse tra loro. Qualcuno si è chiesto se vale la pena che un papa metta tante energie nello scrivere libri, magari sottraendo tempo al suo “governo”, pensato secondo i criteri politici di tutti i governi del mondo. Ma Benedetto XVI fa ciò che gli compete ed è decisivo per il suo ministero petrino: confermare la fede in Gesù Cristo. Questo è l’insegnamento determinante per un papa: perciò un atto deliberatamente non magisteriale come il libro, è tuttavia una confessione di fede fatta dalla chiesa oggi, in sinfonia con la grande tradizione cattolica.
Anche il linguaggio volutamente piano e pedagogico, capace di distillare gli elementi più consolidati dell’esegesi storico-critica e di fonderli con la lettura sapienziale propria della grande tradizione patristica e spirituale, rende quest’opera di Benedetto XVI particolarmente appetibile anche per il largo pubblico: un ragionare discorsivo che viene incontro alla sete di conoscenza e al desiderio di comprensione che è presente anche in molte persone lontane o marginali rispetto alla compagine ecclesiale. Ora, si tratta di un approccio fondamentale proprio per i capitoli conclusivi dei Vangeli, che trattano la passione, morte e risurrezione di Gesù: brani che affrontano da un lato il cuore dell’incontro-scontro tra la figura e la predicazione di Gesù e le istituzioni religiose giudaiche e l’autorità politica romana e, dall’altro, il nodo stesso dell’interpretazione degli scritti del Nuovo Testamento. Semplice rielaborazione storica di eventi accaduti o non piuttosto riflessione interpretativa che riesce a coniugare l’esperienza vissuta dai primi discepoli con la fede della chiesa nascente? In questo senso alcuni critici dell’opera del papa finiscono per incespicare nelle loro stesse argomentazioni: non si può infatti invocare la “storicità” di alcuni brani evangelici per contrapporla all’interpretazione teologica della prima comunità cristiana di cui risentirebbero altri passaggi neotestamentari. Non solo lo studioso, ma anche il lettore ordinario sa che l’intero Nuovo Testamento è stato scritto dopo la risurrezione di Gesù o, se si vuole, dopo la predicazione di questo evento sconvolgente ad opera dei primi discepoli. È quindi questo dato “di fede” a costituire da subito il criterio interpretativo di tutta la vicenda storica di Gesù. Questo non significa – e il lavoro di Benedetto XVI lo evidenzia con singolare efficacia – che la dimensione storica non abbia spazio nell’ambito della predicazione e dell’autocomprensione della chiesa, ma piuttosto che “l’incarnazione”, il calarsi del Figlio di Dio nella condizione umana abbraccia non solo le debolezze della carne umana ma anche la fragilità di un annuncio non scrutabile esaurientemente alla luce dei soli dati storico-critici.
Per i cristiani non è decisiva innanzitutto la parola “Dio”, bensì la conoscenza di Gesù Cristo, colui che ha “narrato Dio”, come testimonia il prologo del quarto Vangelo. È attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, della sua vita, delle sue parole, della sua passione, morte e risurrezione che si giunge ad aver fede e a conoscere il “Dio che nessuno ha mai visto”. Sovente i cristiani, soprattutto nel recente passato erano istruiti intellettualmente su Dio, la sua esistenza, la sua provvidenza: erano credenti in un Dio attorniato da santi con cui avevano maggiore familiarità e di cui conoscevano le “storie”, ma pochi tra di loro arrivavano ad avere fede in Gesù Cristo attraverso la conoscenza della sua vita e morte narrate dai Vangeli.
Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani che non sono teisti, né in certo senso monoteisti, ma aderenti a un Dio unico che è una comunione di amore e che si è rivelato pienamente e definitivamente nella vita umana di Gesù Cristo suo Figlio. La fede cristiana, allora, non è meno solida per il fatto di fondarsi non su una prova incontrovertibile – almeno secondo i criteri moderni – della risurrezione di Gesù, bensì sulla testimonianza di uomini e donne semplici ma divenuti “affidabili” per quanti ne hanno ascoltato la predicazione. Ammettere che la fede si basa non sull’aver visto o toccato con mano alcunché, bensì sulle umanissime parole e sui gesti concreti di persone “normali” dotate di risorse intellettuali e di patrimoni culturali più o meno ricchi, significa compiere il primo passo nella comprensione che la rivelazione, l’invito pressante all’amore rivolto da Dio al suo popolo e portato a compimento nella vita di Gesù e nella sua morte per gli altri “non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? ... Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,12-14). Con il suo Gesù di Nazaret, Benedetto XVI ha reso “vicina” questa parola.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa