Pubblicato su: JESUS - Settembre 2014 - Rubrica La bisaccia del mendicante 7
di ENZO BIANCHI
In Russia nel XIII secolo furono abbandonati in un bosco alcuni bambini e fu dato l’ordine di lasciarli vivere lì da soli, senza dare loro da mangiare e senza rivolgere loro la parola, senza dare loro segni di affetto. Morirono tutti.
Sì, noi siamo umani perché ci viene rivolta la parola e perché parliamo. Per la maggior parte del tempo noi parliamo, e le parole ci servono per esprimere bisogni, per comunicare sentimenti, per chiedere informazioni, per conoscere l’altro, insomma per vivere insieme; ma interiormente ogni parola ha una risonanza, accende immagini e pensieri, forgia emozioni e sentimenti. Ogni espressione, quando raggiunge una persona, causa in chi la ascolta una vibrazione psicologica, innesca un moto interiore. Le parole sono come sassi scagliati in una pozza: anche il più piccolo tra di essi provoca un fremito della superficie dell’acqua.
Per questo occorre fare attenzione quando si parla: è bene mettersi all’ascolto anche di ciò che diciamo noi stessi. Innanzitutto bisogna evitare i toni apodittici, la parola che vuole imporsi: occorre rispettare la persona che ascolta e la sua dignità; evitare le affermazioni in cui risuonano “mai”, “sempre”, o i paragoni tra le persone; evitare le parole che esigono dagli altri, che ci fanno sembrare persone che danno ordini; evitare “si deve”, “bisogna”, perché queste espressioni tolgono la responsabilità agli altri, negano agli altri discernimento e libera decisione, precludono loro soprattutto la scelta. Solo così la comunicazione si spoglia della possibile carica di violenza.
Ma ci sono altri pericoli nel linguaggio, a cominciare dall’uso di un doppio linguaggio, di parole contrastanti con i segni o viceversa. Non si devono avere parole e comportamenti contraddittori, in particolare con i bambini, perché altrimenti li si disorienta e si instilla in loro la sfiducia. Un altro pericolo è quello del parlare dell’altro parlando di noi stessi. È facile questa patologia che proietta sugli altri i nostri bisogni e i nostri sentimenti, peggio ancora i nostri progetti. L’altro è altro, e occorre portargli rispetto anche nell’amore più forte e passionale: il bisogno dell’altro, il desiderio dell’altro non deve accecare, perché l’altro resta altro. L’altro deve accendere in me la responsabilità, deve darmi il desiderio di essere buono e di renderlo buono. È capitale, perché si deve stare insieme, tra amici o amanti, innanzitutto per questo: si sta insieme per farsi del bene, per diventare più buoni. L’uno ha la responsabilità di rendere più buono l’altro, sicché quando questo non accade, quando è contraddetto, e stare insieme significa diventare meno buoni o più cattivi, allora è necessario separarsi, a costo di rompere la relazione.
Infine, nel linguaggio occorre vigilare per non diventare negativi, lamentosi, sempre in collera o addirittura abitati dalla rabbia. Succede sovente negli anziani, ma è una situazione che genera tristezza. Chi si lamenta sempre, vede poco alla volta gli altri allontanarsi da sé, perché nessuno di noi ama stare insieme a chi comunica solo pensieri di tristezza o di lamento.
Ma qual è il mio desiderio oggi, da anziano? Comunicare l’essenziale, semplificare tutto ciò che devo dire, dire tutto con calma e dolcezza, e raccontare, raccontare: mi sembra l’unica maniera per parlare di me senza lamentarmi, ma raccontando il mondo, gli altri, che nel racconto mi sembrano meglio di come li ho vissuti. Dirsi all’altro attraverso il racconto è sempre un’opera di distacco da se stessi, per poter trasmettere all’altro non la propria verità, ma la bellezza e i significati possibili nella propria vita: è un’opera di speranza e di fiducia nel mondo.