Pubblicato su: JESUS - Dicembre 2013
di ENZO BIANCHI
Se la conversione personale richiede rinuncia, fatica, distacchi e quindi sofferenza, tanto più la conversione delle comunità e delle chiese
Non posso dimenticare che uno dei miei primi interventi pubblici con una certa risonanza avvenne durante un convegno organizzato da p. Balducci e p. Turoldo a Firenze, nel primo post-concilio, e divenne poi un articolo pubblicato su Rocca. Era la stagione dell’entusiasmo dovuto alla primavera inaugurata da papa Giovanni e dal Vaticano II: stagione della “vittoria” di un nuovo modo di vivere la chiesa e di edificarla da parte di tutti i cristiani; stagione di “riforma” contrassegnata da un’atmosfera di fervore e di impazienza; stagione sulla quale io avvertivo però tanta presunzione, circa gli sviluppi possibili di quella straordinaria svolta.
Sorprendendo non poco gli amici con i quali si dialogava intensamente di riforma liturgica, allora ancora allo studio, di vita ecclesiale in stato di conversione per una conformità più profonda alla chiesa come il Signore l’aveva voluta e di dialogo nella mitezza e nella povertà dei mezzi con l’umanità contemporanea, io misi in guardia da un facile ottimismo. Se davvero si fosse imboccata la strada della riforma evangelica della chiesa e del suo ordinamento (papato, episcopato, laicato) – dissi –, si sarebbe andati incontro a un tempo in cui ogni trionfalismo sarebbe stato contrastato da fatica, da sofferenza e finanche da lacerazioni, perché c’è una necessitas passionis della chiesa che è dovuta alla necessitas passionis vissuta dal suo Signore Gesù Cristo. Sarebbe avvenuto per la chiesa come per Gesù: le potenze messe al muro dalla “logica della croce” (1Cor 1,18) si sarebbero scatenate e ci sarebbe stato un “urto” anche con il mondo, sicché nella vita ecclesiale molti avrebbero dovuto soffrire (sì, occorre dirlo, patire!). Se infatti la conversione personale richiede rinuncia, fatica, distacchi e quindi sofferenza, tanto più la conversione delle comunità e delle chiese.
Si sarebbe soprattutto vissuta una duplice tentazione. O arrendersi al mondo, mondanizzandosi, non mostrando più la differenza cristiana, svuotando la croce, annacquando il Vangelo, piegandosi alle richieste del mondo; oppure affrontare il mondo con intransigenza e munirsi delle sue stesse armi: presenza gridata, volontà di contare e di contarsi, atteggiamento da gruppo di pressione, assunzione di compiti non assegnati dal Signore. In ogni caso, restava più difficile la via di “una chiesa povera e di poveri”, di una chiesa che contasse solo sul Signore e non sui “potenti di questo mondo” (1Cor 2,6.8; cf. Mt 20,25), di una chiesa dialogante con gli uomini nella mitezza e nella libertà, senza paura e senza l’ossessione di doversi difendere e vivere come cittadella assediata.
Le chiese sono diverse e si può dire che tutte queste scelte sono state imboccate, ora qui ora là, e in modo diverso nelle diverse chiese. Sappiamo bene cosa abbia scelto la chiesa italiana, dimenticando che la sua libertà non può essere vissuta al pari delle altre libertà di cui parla il mondo, perché la chiesa non è mai tanto libera come quando il mondo la contraddice e la umilia. Sì, per la chiesa c’è una pace che è più malefica di ogni guerra, “pax gravior omni bello”!
Oggi è nuovamente in atto per la chiesa una primavera, inaugurata da papa Francesco. L’entusiasmo è molto: non voglio certo spegnerlo, ma ancora una volta sento il dovere di mettere in guardia me stesso e i miei fratelli e sorelle nella fede. Siamo disposti a bere il calice che Gesù ha bevuto (cf. Mc 10,38; Mt 20,22)? Ogni riforma della chiesa, se è evangelica, è a caro prezzo: per tutti e anche per il successore di Pietro che non potrà attendersi, almeno dall’interno della chiesa, dai suoi, dalla sua casa, facile riconoscimento e facile obbedienza. Sarà più facile che lo ascoltino – come è avvenuto per il Battista e per Gesù – “pubblicani e prostitute” (cf. Mt 21,2; Lc 7,34; 15,1), “samaritani e stranieri” (cf. Lc 17,38; Gv 4,39-40).
Queste ipotesi turbano e non vorremmo sentirle; eppure, se è accaduto a Gesù, al Signore, c’è forse un discepolo che è più grande del maestro (cf. Mt 10,24; Lc 6,40; Gv 15,20)? O un un successore di Pietro che non conosca la passione e la tentazione di sfuggirla rinnegando il Signore e il Vangelo? È ora più che mai di pregare per Pietro, non per una gloria mondana che non può essere sua, ma perché, consolato dal suo Signore, resti saldo e possa confermare noi suoi fratelli (cf. Lc 22,31-32) nel faticoso cammino verso il Regno.