7 novembre 2010
di ENZO BIANCHI
La situazione dei cristiani in alcuni paesi del Medio Oriente si fa sempre più drammatica e non serve più di tanto interrogarsi con il senno di poi sull’opportunità e le modalità con cui sono stati smantellati
La Stampa, 7 novembre 2010
“Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia ... sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno”. Queste parole – che aprono il testamento spirituale di fr. Christian , il priore del monastero trappista in Algeria, rapito e ucciso assieme a sei confratelli – mi ritornano alla mente ogni volta che i riflettori si posano su una tragedia che colpisce i cristiani in tante parti del mondo sfigurate dalla violenza. Nei nostri paesi occidentali, un tempo caratterizzati dalla cristianità, solo recentemente riecheggiano con maggior forza e impatto drammatiche notizie di massacri di inermi e innocenti quando questi sono perpetrati contro i cristiani, ma non possiamo dimenticare l’immenso carico di sofferenze che in situazioni di guerra e di terrorismo si riversa sull’insieme della popolazione, in particolare la più povera e indifesa, di qualunque fede essa sia.
Analogamente provo disagio nel leggere un malcelato compiacimento in chi commenta drammatiche notizie – come la strage di cristiani all’interno di una chiesa di Baghdad – con accenti più di odio verso il “nemico” che di compassione e di dolore nei confronti di “correligionari” dei quali fino al giorno prima ignorava addirittura l’esistenza. Anche qui le parole di fr. Christian possono aiutarci a un maggiore discernimento: “So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell’islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti”. Non dovremmo dimenticare che ci sono musulmani che soffrono per la situazione politica e sociale attuale e che riconoscono il valore della presenza dei cristiani, chiedendo loro di restare perché la loro permanenza è memoria attiva di un passato non solo di tolleranza ma a volte di convivenza feconda. Basterebbe rileggere gli interventi degli osservatori musulmani al recente Sinodo sul Medio Oriente tenutosi in Vaticano, un sunnita e uno sciita, provenienti dal Libano e dall’Iran: l’intolleranza verso i cristiani “è un tentativo di lacerare il tessuto delle nostre società nazionali costruito da molti secoli ... l’emigrazione dei cristiani è un impoverimento dell’identità araba, della sua cultura e della sua autenticità”.
La situazione dei cristiani in alcuni paesi del Medio Oriente si fa sempre più drammatica e non serve più di tanto interrogarsi con il senno di poi sull’opportunità e le modalità con cui sono stati smantellati poteri dittatoriali che tuttavia riuscivano a garantire un minimo di vivibilità alle minoranze presenti: evidentemente le tragedie susseguitesi nei territori dell’ex-Jugoslavia non hanno insegnato nulla.
Il dilemma che affligge queste comunità, emerso con forza e lucidità anche durante i lavori del Sinodo, è proprio quello tra il restare – sempre più deboli e indifesi in mezzo a rischi enormi – oppure il partire, abbandonando non solo la terra dei propri padri e delle radici della propria fede, ma anche le persone di altri fedi con le quali si sono trascorsi esistenze di quotidiana e spesso pacifica convivenza e fraternità. Dilemma atroce che nessuno dovrebbe essere obbligato ad affrontare, ma anche alternativa che nessuno può dirimere al posto di chi la vive sulla propria pelle e su quella dei propri cari. Dilemma che tuttavia pone anche a noi alcune questioni, a cominciare dalla liceità o meno di usare termini come “persecuzione” per definire la perdita di alcuni privilegi di cui godono i cristiani nei paesi occidentali. Le sofferenze e le angosce dei cristiani d’oriente ci inducono a riflettere a nostra volta sul prezzo che siamo disposti a pagare per testimoniare la nostra fede, sulla qualità dei nostri rapporti quotidiani con chi professa un credo diverso dal nostro, sul significato del restare fedeli a un luogo e una terra che siamo chiamati ad amare anche quando presenta un volto ostile.
Occorre anche riflettere su una dinamica storica inedita che da alcuni anni sta aprendo nuovi scenari nella penisola arabica: in quei paesi in cui è vietata ai cristiani ogni attività missionaria perché ritenuta proselitismo sono ormai presenti più di tre milioni di cristiani giunti con i consistenti flussi migratori legati alle attività economiche e lavorative. Non si può più parlare quindi di sparute minoranze, ma di una presenza viva e operosa.
C’è infine un ulteriore elemento che dovrebbe interpellare i cristiani dei paesi dove si può serenamente professare il proprio credo: per gli avversari della fede cristiana – che sono alcuni estremisti e non l’insieme dei credenti musulmani – non vi è differenza tra siro-cattolici o copti ortodossi, tra protestanti americani o cattolici europei... per loro è chiara l’appartenenza a un’unica comunità religiosa, nella quale spariscono la differenze confessionali. È quanto i cristiani hanno già sperimentato in altre situazioni di oppressione e persecuzione: dai gulag sovietici ai lager nazisti, la sofferenza e il martirio subiti in nome di Cristo hanno portato a superare barriere che le rispettive istituzioni ecclesiali e le secolari divergenze teologiche avevano eretto. Quando i cristiani sono ricondotti al “caso serio” della loro fede – il testimoniare fino al dono della vita che si ha una ragione per vivere tanto forte da diventare anche ragione per morire – dimenticano quanto li divide e li contrappone e riscoprono l’essenziale che li unisce: il loro credere nella morte e resurrezione del loro Signore, il giusto che in un mondo ingiusto ha pagato con la vita la sua passione per la fraternità umana.
Questo non significa affatto augurarsi la persecuzione né compiacersi di essa, ma capire dall’interno il tormento che affligge tanti fratelli e sorelle nella fede e, nel contempo, rendersi conto di come chi è perseguitato sappia trovare in sé e nella comunità energie spirituali inimmaginabili in altre situazioni. Un aiuto alla loro drammatica situazione non verrà allora dal nostro accanirci verbalmente contro un nemico collettivo, ma dal condividere il loro sforzo ostinato e quotidiano di riconciliazione, il loro rifiuto a rispondere alla violenza con la violenza, la loro faticosa ricerca di una rinnovata capacità di perdono, anche per i persecutori. Un aiuto verrà se sapremo costantemente ricordare l’esistenza di questi cristiani e il loro ruolo di minoranze attive e feconde, se sapremo far sì che i nostri governi uniscano alle febbrile relazioni commerciali la risoluta richiesta ai loro interlocutori istituzionali del rispetto dei diritti e la fine di ogni discriminazione religiosa.
Come diceva ancora il priore di Tibhirine a proposito dell’Algeria e dell’islam che apparivano preda dell’integralismo estremista, “per me sono un’altra cosa: sono un’anima e un corpo”. Forse il doloroso restare là dove si è sempre vissuta la propria fede significa anche credere e testimoniare che anche la comunità religiosa del tuo vicino e diverso sono “un corpo e un’anima” da conoscere e amare.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa