13 febbraio 2010
di ENZO BIANCHI
Siamo di fronte alla Prima generazione incredula - come l'ha definita Armando Matteo nella sua ottima riflessione su «il difficile rapporto tra i giovani e la fede»
La Stampa, 13 febbraio 2010
I luoghi comuni sui giovani ormai si sprecano, a cominciare dalla stessa definizione di una categoria di persone legata unicamente a una fascia di età fino a una cinquantina d'anni fa inesistente: una serie di condizioni sociali e culturali faceva sì che non ci fosse «tempo per essere giovani», in quanto l'età di passaggio dall'adolescenza al mondo adulto era un brevissimo lasso di tempo. Eppure oggi si sente continuamente parlare di giovani, del loro «non essere più come quelli di una volta», delle loro attese e frustrazioni, del loro futuro. Anzi, proprio sul termine «futuro» un altro luogo comune rischia di portarci fuori strada nell'affrontare le problematiche giovanili: si sente ripetere che «i giovani sono il futuro della società (o della chiesa)», senza rendersi conto che questa affermazione da un lato tende a emarginalizzarli dal presente - come una sorta di difesa preventiva degli adulti che mantengono così la loro presa su un oggi di durata indefinita - e a ignorare che in realtà essi sono già «una parte del presente» della società, mentre dall'altro lato ignora pericolosamente il dato che più affligge oggi chi ha tra i venti e i trent'anni: la mancanza di speranza per il futuro. Tra gli aneliti più cocenti dei giovani, infatti, non vi è quello di «essere» il futuro di una determinata realtà sociale o ecclesiale, ma piuttosto di «avere» già ora un futuro verso cui tendere, un'attesa capace di dare senso al loro presente.
Per la chiesa poi, specie in Italia e in Europa, la questione «giovani» si fa particolarmente preoccupante. Siamo di fronte alla Prima generazione incredula - come l'ha definita Armando Matteo nella sua ottima riflessione su «il difficile rapporto tra i giovani e la fede» (Rubettino, Soveria Mannelli, pp. 110, €10) - cioè a persone per le quali «nascere e diventare cristiano» non sono più «eventi che accadono in modo sincrono», una generazione cui «nessuno ha narrato e testimoniato la forza, la bellezza, la rilevanza umana della fede».
L'analisi di Matteo - assistente ecclesiastico nazionale della Fuci e come tale in costante contatto con i giovani universitari - è lucida anche nel suo tratteggiare «quel senso di notte e quella notte di senso» che attanaglia tanti giovani. Sono interrogativi - ma anche suggerimenti, intuizioni, proposte da accogliere con gratitudine e approfondire con sapienza - che riguardano la chiesa intera e la sua presenza nella società, oggi prima ancora che domani, la sua capacità di «umanizzare», di far diventare l'essere umano più umano. Sono parole a volte sferzanti, dure da ascoltare, ma che ci risvegliano a un'urgenza a volte percepita ma raramente assunta con serietà: la consapevolezza che la fede, come la vita, la si trasmette da persona credibile a persona aperta alla possibilità di credere. Si tratta di essere coscienti non solo di avere un patrimonio da trasmettere, ma anche del dover rendere credibile e desiderabile l'eredità che si vuole lasciare a generazioni erroneamente definite «che verranno»: esse in realtà sono già in mezzo a noi e da noi attendono segni di un passato verso il quale essere grati, di presente aperto al domani, di un futuro possibile e che valga la pena di essere vissuto, a partire da qui e ora.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa