31 gennaio 2010
di ENZO BIANCHI
La positiva povertà della realtà (il lavoro, gli altri, le relazioni) diventano la preziosa ricchezza che aiuta a uscire dal male oscuro
Avvenire, 31 gennaio 2010
Vi è chi ha definito la nostra società come 'depressiva', tale cioè che facilmente ingenera nell’animo delle persone quei disturbi dell’umore che vanno sotto il nome di depressione. Certo, sappiamo bene che l’eziologia della depressione (e delle sue varie forme: psicosi maniaco-depressive, depressioni reazionali, distimia, ciclotimia, eccetera) abbraccia fattori biologici, genetici e non solo psicosociali. Ma è vero che l’insicurezza generalizzata, la competizione nel mondo del lavoro, i ritmi stressanti della vita quotidiana, così come le tensioni e spesso il fallimento delle unioni coniugali, la precarietà e in particolare la perdita del posto di lavoro, e via dicendo, fanno di questi disturbi una patologia oggi particolarmente diffusa nelle società occidentali.
Comunque, quali ne siano le cause, la depressione è l’indesiderato ospite che ricorda in modo traumatico alla persona le sue fragilità e povertà radicali, ontologiche. La depressione è infatti una sorta di sole nero che proietta tenebra su tutti gli aspetti della vita, e rende bui e senza gusto anche quegli aspetti che fino ad allora apparivano desiderabili, gradevoli, piacevoli. Un evento traumatico della vita (la morte del coniuge, una separazione, o altri avvenimenti meno traumatici oggettivamente ma sentiti come particolarmente disarticolanti da parte del soggetto) può scatenare o far lentamente scivolare in uno stato depressivo. Allora si confessa di non aver più voglia di niente, di non aver motivi per alzarsi al mattino, si perde appetito, il sonno non è più un riposo, ma è turbato, ci si sente stanchissimi anche senza aver compiuto grandi sforzi, abbandonati, preda di sensi di colpa e di sentimenti di impotenza, si perde ogni autostima, ci si rinchiude in sé isolandosi dagli altri e non si riesce più a nutrire interesse per le persone, per la vita, per le cose quotidiane e semplici che formano la trama di ogni vissuto.
La penosissima condizione del depresso lo porta a perdere il senso dell’esistenza, a non sapere più perché vive. Si smarrisce così la condizione stessa di ogni ricchezza: il senso della vita. La tradizione spirituale cristiana parla, fin dall’antichità, di acedia, un pensiero malvagio che definisce un malessere generalizzato della persona, malessere che la porta a una sorta di atonia dell’anima, a un disgusto del vivere che rende l’uomo estraneo a se stesso e alla vita. Anche la via di risalita e di uscita dalla depressione richiederà un cammino di umiltà e di povertà. Si tratterà infatti di riconoscersi malati e di sottoporsi a trattamenti farmacologici, magari abbinati a sedute di psicoterapia, ma poi di accettare di vedere dentro di sé l’origine del disturbo, lasciando che emergano in piena luce ferite antiche o comunque assumendo e accettando pienamente le fragilità che abitano nel profondo. Vivendo e accogliendo persone portatrici di handicap, ma anche persone ferite nella loro vita affettiva, Jean Vanier conosce bene i meccanismi della depressione e il ruolo di chi è accanto a queste persone, offrendo percorsi di umana sapienza e di solidarietà cristiana. Guardandosi dalle troppo rapide spiritualizzazioni che aureolano anche quella che è una malattia, occorre che chi è vicino al depresso lo aiuti ad accettarsi anche nei suoi lati negativi, mostrandogli che è amato nelle sue negatività, fragilità, ferite. Un lavoro che susciti interesse, una famiglia o una comunità o comunque delle persone che assicurino vicinanza e sostegno, e l’accettazione della realtà come si presenta, dunque l’assunzione del principio di realtà, tutto questo può aiutare la guarigione, la fuoriuscita dallo stato depressivo. La positiva povertà della realtà (il lavoro, gli altri, le relazioni) diventano la preziosa ricchezza che aiuta a uscire dal male oscuro, da quella povertà lacerante, disperante e angosciosa che è la depressione.
Enzo Bianchi
presso la nostra casa editrice:
JEAN VANIER
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