Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Vigilia: la lunga notte dell'attesa

23/12/2009 23:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2009,

Vigilia: la lunga notte dell'attesa

La Repubblica

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24 dicembre 2009

di ENZO BIANCHI

La sera del 24 dicembre nelle chiese sparse su tutta la terra sovente i fedeli attendono con canti, letture e meditazioni la mezzanotte

La Repubblica, 24 dicembre 2009

 

A cosa pensa oggi la gente quando usa l’espressione ‘vigilia’ di Natale? Quasi sicuramente pensa al giorno prima della festa, niente di più. E tuttavia la parola “vigilia, vigilie” ha una lunga storia, ha conosciuto significati diversi lungo i secoli e di fatto conserva ancora significati differenti a seconda di come la si vive. Ormai giunto all’anzianità, posso dire di averla vissuta almeno in tre modi diversi.

 

Innanzitutto il modo in cui la vivo ancora oggi da cristiano e da monaco. Sì, perché vigilia – pannychía in greco – significa in primo luogo la veglia nella notte, il montare la guardia durante la notte, dunque il restare svegli e l’essere vigilanti, preparati, attenti a ciò che può accadere. Già i credenti ebrei più ferventi, come testimoniano i Salmi, si alzavano nella notte per dedicarsi alla preghiera. Ma è soprattutto con l’avvento del cristianesimo che si afferma la vigilia. Se nell’ebraismo alcune feste erano precedute dal giorno di preparazione – ‘ereb in ebraico, tradotto in greco con paraskeuè (cf. Gv 19,14) –, nelle primitive comunità cristiane in giorno di domenica, come testimonia Plinio, “ante lucem”, prima del sorgere del sole, cioè nelle ore normalmente dedicate al sonno, si celebrava una liturgia in cui si cantava a Cristo “quasi Deo”, “come a un Dio”. Queste veglie comunitarie di preghiera furono ben presto chiamate vigilie.

 

Nel IV secolo i monaci, sia in oriente che in occidente, scelsero proprio queste ore della notte per vegliare e pregare, in attesa della venuta gloriosa del Signore Gesù Cristo. E i monaci lo fanno ancora oggi: prima dell’alba, nella propria cella, con la faccia che a volte cade sul libro santo della Bibbia, oppure cantando tutti insieme i salmi, essi pregano, meditano, contemplano, invocando soprattutto la venuta del giorno del nuovo Sole, della luce, dello Sposo, del Signore vincitore della morte. Caratterizzate da canti che diventano particolarmente solenni quando il giorno che si apre è quello di una grande festa, le vigilie sono un’esperienza che si fa con tutto il corpo, non solo con la mente: gli occhi devono restare aperti, il corpo non deve piegarsi, tutte le membra devono essere in stato di vigilanza, nella convinzione di accelerare così la venuta del Signore…

 

La chiesa, fatta di cristiani e non di monaci, non vive questa esperienza, e pochi sono oggi i cristiani che si esercitano alla veglia, a lottare contro il sonno, a restare desti mentre tutti gli altri dormono, per pregare, pensare, cantare il Signore. Ma la chiesa comunque ha sempre vissuto la veglia pasquale, nella notte tra il sabato santo e la domenica di resurrezione, e da Agostino in poi l’ha chiamata “mater omnium sanctarum vigiliarum”, “madre di tutte le sante vigilie”. Essa celebra inoltre una veglia anche nella notte di Natale, prima della cosiddetta “messa di mezzanotte” in cui si ricorda la nascita di Gesù a Betlemme. Come a partire dalla notte più lunga dell’anno il sole comincia a vincere le tenebre, così il “Sole di giustizia” Gesù Cristo vince le tenebre del male e nasce come luce vittoriosa a Betlemme. La sera del 24 dicembre nelle chiese sparse su tutta la terra sovente i fedeli attendono con canti, letture e meditazioni la mezzanotte, quando inizia la liturgia eucaristica, celebrazione delle celebrazioni, in cui si ricorda tutto il mistero di Cristo, a cominciare dalla sua nascita nella carne umana a Betlemme. Ecco in cosa consiste la vigilia secondo la chiesa.

 

Ma, soprattutto a Natale, nelle famiglie si vive anche una vigilia segnata dalla costruzione di simboli religiosi assai cari. Innanzitutto si fa il presepe in un angolo della casa: più o meno grande, a volte ridotto a una capanna nella quale si collocano i protagonisti del Natale di Gesù, a volte assai elaborato, fino a contenere il castello del re Erode, le lande del deserto in cui camminano i re magi, le case di Betlemme con tutti gli artigiani al lavoro, i pastori che vengono alla greppia… Molti di noi ricordano come questo fosse un evento atteso: “fare il presepe” era in qualche modo rappresentare visivamente nella propria casa ciò che era al cuore della fede, era una costruzione dovuta alla fede e occupava molto tempo della giornata. Non c’erano molte immagini nella società del dopoguerra, non molte possibilità di rappresentare domesticamente “l’altro”, “l’eccezionale”, ma il presepe insegnava che Gesù era nato povero, che i poveri erano i primi clienti di diritto della buona notizia, che a loro per primi si era rivolto l’angelo, che Gesù era venuto tra i suoi ma non era stato accolto, che appena nato aveva conosciuto la persecuzione da parte del potente di turno ed era stato costretto ad andare come uno straniero in Egitto. Non era un insegnamento da poco, ed entrava nella coscienza dei bambini e degli adulti, ricordando la valenza e le urgenze del messaggio cristiano.

 

La vigilia di questa festa era anche l’occasione per addobbare l’albero di Natale. Oggi lo fanno tutti, ma non dimentico che quando ero piccolo e lo preparavo accanto al presepe, venivo messo in guardia: se il presepe era percepito come proprio alla tradizione cattolica, l’albero aveva invece una connotazione di matrice protestante, legato com’era agli usi delle nazioni più settentrionali. e dunque di esso bisognava diffidare. Ecco dunque la vigilia vissuta in casa, con il presepe e l’albero fatti dai bambini, aiutati a volte dai padri, che apprestavano un luogo in cui deporre i regali di Gesù bambino. E i regali erano poveri: castagne, qualche mandarino, noccioline e cioccolato, e a volte, se c’era qualche soldo in famiglia, un vestito nuovo... sempre, comunque, un oggetto che fosse anche utile.

 

E mentre succedeva questo, le donne della casa vivevano la vigilia preparando il cibo festoso per il pranzo di Natale del giorno dopo. Sovente si aiutavano tra loro, donne di diverse famiglie, per cucinare le pietanze in cui ciascuna era specializzata, e tutte insieme per preparare i ravioli, questo straordinario piatto di pasta ripiena di carne che è un canto alla vita. La vigilia era fervorosa, tutti facevano qualcosa, tutti preparavano la festa; e se qualcuno aveva una pena personale, la nascondeva per non attentare all’atmosfera di gioia condivisa che caratterizzava quella festa.

 

Quel giorno per i credenti era vigilia anche nel senso di giorno “di magro”, cioè di astinenza dalla carne e anche di digiuno: ci si preparava anche così alla festa del Natale. Oggi in alcune regioni è invalsa l’usanza del “cenone magro” in cui si banchetta con pesci prelibati e costosissimi, ma questa consuetudine, frutto dell’abbondanza e della volontà di consumare senza sobrietà, appare ipocrita e di fatto rompe l’atmosfera di vigilia, la deturpa svuotandola del suo senso di attesa. Sì, io continuo a pensare che il modo in cui si viveva la vigilia – e in cui, come molti cristiani, anch’io continuo a viverla – fosse più sapiente e che un tempo, quando verso sera si accendeva un grande ceppo nel camino, destinato ad ardere fino al ritorno dalla messa di mezzanotte, si compiva anche un gesto di fiducia: questo ceppo che riscaldava nella notte custodendo una luce pronta a erompere appena lo si riattizzava era davvero un emblema eloquente della vigilia!

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Repubblica