Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

Quando Gesù risorgeva il sabato

12/04/2009 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2009,

Quando Gesù risorgeva il sabato

La Stampa

quotidiano22lastampa-svg-1606236146.png

12 aprile 2009

di ENZO BIANCHI

I cristiani non dovrebbero mai dimenticare che la risurrezione di Gesù da morte, la vittoria dell’amore vissuto da Gesù sulla morte sofferta in croce è lo specifico della loro fede

versione integrale dell'articolo

La Stampa, 12 aprile 2009

 

Gli eventi e le immagini di dolore e di morte che hanno accompagnato questa settimana santa hanno tragicamente obbligato i cristiani a interrogarsi sul senso della propria fede e sulla autenticità della propria testimonianza dell’amore più forte della morte. E, in piena solidarietà con chi non professa la fede cristiana, il credente ha anche potuto discernere in sé e attorno a sé il significato del vivere e del morire, la forza lacerante della sofferenza, lo slancio generoso della solidarietà umana, la violenza cieca che può annientare la speranza e obnubilare la ragione ma anche destare in ciascuno il bene che lo abita.

Sì, vivere e celebrare la passione, morte e risurrezione di Gesù al cuore di un’esperienza di dolore così grande può essere occasione per rivisitare ciò che è alla radice delle festività pasquali e che l’abitudine ci porta purtroppo a scordare. Ora, per i cristiani il triduo pasquale che culmina con la domenica di risurrezione dovrebbe essere un tempo decisivo per la propria fede, da viversi non solo come “precetto”, ma soprattutto come celebrazione di ciò in cui si crede: i cristiani non dovrebbero mai dimenticare che la risurrezione di Gesù da morte, la vittoria dell’amore vissuto da Gesù sulla morte sofferta in croce è lo specifico della loro fede, l’unico vero debito che esso hanno verso gli altri uomini.

 

Può essere utile allora – in questa stagione di crisi economica globale e di incrinamento del mito del progresso inarrestabile e mentre abbiamo negli occhi e nel cuore la sofferenza che ci porta brutalmente a interrogarci sull’essenziale nelle nostre vite – rivisitare altri tempi e altre modalità di vivere la Pasqua per trarne preziose indicazioni per l’oggi della fede e della presenza a noi stessi e alla società. In verità – va confessato con schiettezza – nel nostro passato ci sono tanti comportamenti, alcuni ormai dimenticati, che hanno favorito la disaffezione verso questa festa e le liturgie che la contraddistinguono, finendo per defraudarla del suo significato più profondo. Quando le inchieste ci rivelano che solo il 30% dei cattolici crede nella risurrezione, perché meravigliarci?

 

Non dimentico che negli anni del dopoguerra la partecipazione alla liturgia riguardava poche persone – alcune donne, qualche bambino... – e vi era scarsa consapevolezza di quanto si andava a celebrare. Al giovedì santo sera la chiesa restava quasi vuota, come anche il venerdì pomeriggio: solo la processione del crocifisso in serata attirava il grosso dei fedeli per una partecipata “manifestazione” del dolore. I canti, in particolare lo Stabat Mater, erano strazianti e una grande croce attraversava le vie del paese: rappresentare, narrare la sofferenza era semplicemente un tentativo di dare senso alla quotidiana fatica del vivere. Le donne, nel frattempo, avevano provveduto a raccogliere fiori e a disporli attorno al “sepolcro” con quella cura creativa e quell’amore sovente maggiori di quelli mostrati per i loro stessi morti; essendo ancora scarsi i fiori , si seminava grano, avena e orzo in contenitori lasciati al buio: il verde smagliante della germinazione avrebbe cantato la primavera. Sì, in quei tempi di povertà, segnati in modo martellante da miseria, epidemie e dalle pesanti conseguenze della guerra, la croce era la “parola” e il segno verso cui si concentravano l’attenzione e l’attesa, quasi fosse capace di spegnere le sofferenze, percepite più come una necessità che non una fatalità.

 

E la Pasqua? La gioia festosa della risurrezione? Il sabato santo si attendeva che verso le nove del mattino le campane – mute dal giovedì santo sera – fossero “slegate” e riprendessero a suonare: allora i bambini assieme alle donne correvano verso i ruscelli carichi delle acque piovane primaverili e dei primi disgeli dalla montagne e ci si lavava gli occhi e il viso. Era un rito campestre di celebrazione della primavera, della vita nuova che rinasceva nella natura: aveva ben poco a che fare con il mistero cristiano della Pasqua che, infatti, veniva celebrato in quello stesso momento in chiesa dal prete lasciato praticamente solo... Stranezza di cui ci si è ormai scordati: già il sabato santo al mattino Cristo era “risorto”! Certo, c’era poi la domenica con la messa festiva , a cui la gente partecipava più numerosa, ma non si percepiva il senso della vita che vince la morte, la gioia pasquale che Cristo era davvero risorto dai morti, primizia della vocazione che attende tutti gli esseri umani. Era come se del messaggio evangelico si fosse in grado di cogliere solo la dimensione della passione e della sofferenza fino alla morte, una dimensione così familiare alla vita quotidiana di tanta gente, mentre sulla gioiosa speranza di una vita più grande del dolore, di una vita capace di sconfiggere il male e la morte pareva calare un silenzio contenuto, come se all’uomo non fosse dato di sperare cose così grandi.

 

Poi venne la riforma liturgica di Pio XII che restaurò la veglia pasquale nella notte tra sabato e domenica suscitando un fermento nuovo e un mutamento capace di riaprire antichi orizzonti di fede e di maturazione cristiana. Devo confessare ancora una volta che, se sono cristiano, lo devo in massima parte all’aver potuto vivere in modo sapiente quella riforma che, quando attuata come nel caso del mio parroco con cura e attenzione per l’essenziale e accompagnata da una spiegazione intelligente di gesti, simboli e letture, costituiva un’autentica catechesi alla portata di tutti. La notte fonda in cui appariva il fuoco nuovo, l’acqua, il grande cero variopinto, i simboli degli elementi naturali diventavano eloquenti e quando, verso mezzanotte, le campane riprendevano a suonare a distesa, e in chiesa esplodeva nuovamente il canto solenne e gioioso, ciascuno sentiva confermata la propria convinzione, la fede nella risurrezione. Dopo secoli di esilio, la veglia pasquale tornava al cuore della fede cristiana e annunciava con forza che “vittoria non è se non sulla morte”, che l’amore vissuto da un uomo, figlio di Dio, Gesù ha vinto la morte.

 

Possiamo allora comprendere meglio come questo senso di gioia e di festa, liberato grazie alle celebrazioni liturgiche, ricadesse nella vita di ogni giorno e la allietasse. Così il lunedì di Pasqua avveniva una sorta di connubio tra lo straordinario della risurrezione e il quotidiano di una vita semplice, sobria, dignitosa pur nella modestia. Era il giorno del “merendino”: tutte le famiglie e gli amici invadevano i prati fino al liminare dei boschi e si stava insieme mangiando e bevendo, celebrando il prevalere delle energie vitali sulle forze di morte e di tenebra. L’ingrediente culinario essenziale era la “torta verde”, fatta con riso e costine, spinaci, erbe selvatiche raccolte dai bambini, uova e formaggio, qualche aroma come aglio e rosmarino, e ancora uova sode incastonate come perle nell’impasto e quindi in ogni fetta che toccava in sorte a ciascun commensale. Bastava quella semplice torta casereccia di erbe, un dolce a forma di colomba, un po’ di vino buono e l’atmosfera del pomeriggio si riempiva di gioia e di colori a consolazione delle sofferenze patite e a incoraggiamento per affrontare le fatiche che la vita avrebbe richiesto già dall’indomani. Sì, l’inverno era davvero finito, la campagna si ridestava, la vita aveva sconfitto la “stagione grama”: anche in questo, la dimensione più propriamente di fede si mescolava e si stemperava in una saggezza molto umana non sempre impregnata di fede nella risurrezione di Cristo e nella risurrezione dei morti pur proclamata nel Credo.

 

I cristiani, divenuti sì minoranza ma non per questo irrilevanti nella società, sono capaci ancora oggi, al cuore delle tenebre di morte e di dolore che ci avvolgono come flutti pronti a inghiottirci, di testimoniare che l’amore vince l’odio, che l’uomo sa essere uomo per il suo simile, che l’attesa di una vita piena non è vana speranza ma si invera già nei gesti che ciascuno può compiere ogni giorno? È questa una “buona notizia” di cui i cristiani, in particolare nei giorni pasquali, sono debitori ai loro fratelli e sorelle in umanità, a cominciare dalla martoriata popolazione degli Abruzzi.

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Stampa