Rocca - Novembre 2012
di ENZO BIANCHI
Il presente delle nostre comunità ecclesiali dipende proprio dall’armonia e dalla sapienza con cui sappiamo compaginare le diverse età della vita nel tessuto quotidiano delle decisioni da prendere e dei compiti da assolvere
GENERAZIONI INSIEME
Un clima sociale sempre più avvelenato e il desiderio di trovare scorciatoie per uscire dalla crisi esasperano sempre più anche le contrapposizioni generazionali, come se una data di nascita più recente fosse di per sé garanzia di maggior facilità nel risolvere i problemi. La tensione tra giovani e anziani è antica quanto il mondo, ma forse oggi la stiamo vivendo con aspetti paradossali. Da un lato le nostre società occidentali sembrano affette da giovanilismo esasperato: nessuno vuole invecchiare e ogni trucco è buono, dalla cosmesi al vestiario, dall’esercizio fisico alle diete, dall’aggiornamento tecnologico ai comportamenti sociali... tutto deve concorrere a relegare in un futuro indefinito il progressivo invecchiamento, fino a negarlo contro ogni evidenza. D’altro canto la strenue difesa di quella che un tempo si chiamava “gerontocrazia” subisce gli attacchi dei più giovani che, anche verbalmente, considerano gli anziani ferrivecchi da rottamare, finendo per cosificare gli appartenenti alle generazioni precedenti. Senza contare poi il tacito disprezzo che si nutre per chi esce definitivamente dal ciclo produttivo, come se l’unico apporto di un individuo alla società fosse il suo contributo al prodotto interno lordo. In questo cortocircuito generazionale si è finito per privare tragicamente gli anziani del loro passato e i giovani del loro futuro: così la società nel suo insieme non fa tesoro né delle potenzialità dei giovani – la speranza, l’entusiasmo, le energie fisiche, l’elasticità mentale.. – né delle virtù degli anziani come l’esperienza, la saggezza, la capacità di resistenza, la memoria storica. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti, per semplice buonsenso e per averlo toccato con mano infinite volte, che non basta essere giovani o essere vecchi per agire efficacemente per il bene comune.
Se però guardiamo a questa problematica facendo tesoro del vissuto della chiesa nei primi secoli o della sapienza sedimentata nelle regole monastiche, possiamo trovare indicazioni preziose per l’oggi, della chiesa come della società. Innanzitutto, già nelle primissime comunità cristiane nate dalla predicazione apostolica, gli “anziani” (presbyteroi, da cui il nostro presbiteri) non erano i più vecchi anagraficamente bensì quelli che da più tempo avevano abbracciato la fede e la vita della comunità. Analogamente nelle comunità monastiche sarà l’inizio della vita comune a segnare l’età dei vari membri e ciascuno sarà chiamato a considerare suoi anziani quelli che già trova in monastero e “giovani” quelli entrati dopo di lui, anche se più vecchi di età. Così, quando Giovanni nella sua Prima lettera si rivolge con ammonimenti specifici sia ai più giovani che ai più anziani di vita cristiana (cf. 1Gv 2,12-14), è animato da un unico intento: quello di edificare l’insieme della comunità, di forme un corpo vivo e armonioso, valorizzando i carismi propri dell’una e dell’altra condizione umana.
Questo avveniva in società in cui l’aspettativa di vita era ben più bassa di oggi e in cui l’esperienza degli “anziani di giorni” era considerata patrimonio prezioso. Si voleva così sottolineare l’importanza della perseveranza per il cammino di fede di una comunità, riaffermando che le fedeltà umane si potevano fondare solo sulla fedeltà di Dio, l’unica che non verrà mai meno. Del resto, ogni anziano onesto sa, per averlo vissuto sulla propria pelle e per averlo visto attorno a sé, che solo il Signore è l’artefice della perseveranza umana, solo lui sa “rinnovare la giovinezza” (cf. Sal 102,5), sa cioè far vivere l’attesa nella speranza.
Del resto, se non restiamo alla superficie delle cose, che senso hanno frasi che sentiamo costantemente ripetere come “i giovani sono il futuro della chiesa” o “dai giovani dipende il futuro della società”? Se non è un modo ipocrita per estrometterli dal presente e conservare delle rendite di posizione, queste espressioni suonano vuote: i giovani non sono il futuro della chiesa, così come gli anziani non ne sono il passato. Sono invece, entrambi, parte attiva del presente, che lo si voglia o no, che li si valorizzi o meno. Il presente delle nostre comunità ecclesiali dipende proprio dall’armonia e dalla sapienza con cui sappiamo compaginare le diverse età della vita nel tessuto quotidiano delle decisioni da prendere e dei compiti da assolvere. A tutti, indipendentemente dall’età anagrafica e dall’anzianità di appartenenza, è dato di vivere con fedeltà l’oggi di Dio nella fede salda, nella speranza certa e nella carità fraterna. E nella gratitudine per i doni che ogni stagione della vita porta con sé.