Pubblicato su: JESUS - settembre 2012
di ENZO BIANCHI
Gesù non parlava di un Dio grande, onnipotente, vittorioso e che dunque si impone agli uomini, lo accolgano o non lo accolgano: parlava di un Padre
Gesù parlava di molte cose in parabole
Annota il vangelo secondo Matteo: “Gesù parlava di molte cose in parabole” (Mt 13,3). Sì, parlava di “molte cose” e in “parabole”. Di molte cose significa che Gesù non consegnava formule, verità codificate, ma parlava della realtà, di ciò che è quotidiano, di ciò che accade nella vita di uomini e donne. Mai nei vangeli sinottici Gesù consegna agli altri discussioni teologiche su Dio o formule su Dio, anzi di Dio parla poco… Ne parla solo perché emerga un’immagine diversa da quella preconfezionata trasmessa dai dottori della legge, perché emerga quell’immagine che si poteva riscontrare, leggere, decifrare nella sua vita umanissima e quotidiana, mai straordinaria, mai volta a incantare o a sedurre.
Gesù parlava di Dio nelle parabole senza nominarlo. Non aveva in bocca la parola “Dio”, utile in ogni dialogo, non aveva l’ansia di nominarlo a tutti i costi, parlando di Dio alla terza persona. Nelle parabole – possiamo dire – si trova una parola “non religiosa”, una parola che indicava alla mente degli ascoltatori cose ed eventi umanissimi, terrestri: un fico che mette i germogli in primavera, del lievito che fa lievitare la pasta, un padre che attende e perdona il figlio perduto, un pastore che perde e ritrova una pecora, un agricoltore che semina il grano, dei vignaioli che lavorano una vigna… Parlava di uccelli e di lupi, di perle e di pesci, di sole e di vento, di canne e di piante aromatiche. Racconti, narrazioni in cui Dio non è il protagonista né uno dei personaggi, ma che, una volta ascoltati con gli orecchi e meditati nel cuore, potevano comunque far capire qualcosa dei sentimenti, delle attese, delle azioni di Dio, di quello che Gesù chiamava il Regno di Dio.
Possiamo pensare che a volte venissero rivolte a Gesù delle domande su Dio, eppure egli non rispondeva con formule, non forniva certezze, ma rimandava all’esperienza umana, alla storia e alla microstoria in cui gli uomini e le donne sono coinvolti. Quasi a dire: “Aderite alla realtà, guardate con gli occhi, ascoltate con gli orecchi, cercate, pensate, interrogate!”. Non c’era mai in Gesù l’ansia di fornire risposte catechetiche, di annunciare dogmi, di indicare leggi morali ferree: parlava in parabole, parlava di molte cose… “Non parlava come gli scribi”, annotano i vangeli, ma “parlava con autorevolezza” (cf. Mc 1,22 e par.), senza ricorrere al linguaggio degli addetti alla religione. Tra le cause dell’opposizione di scribi e sacerdoti a Gesù va annoverato anche questo suo linguaggio umanissimo che sconcertava in bocca a un predicatore, perché egli non diceva quello che tutti dicevano per professione e non ripeteva quello che era stato detto e che veniva chiamato tradizione (cf. Mc 7,9.13; Mt 15,3.6).
Mai in Gesù un ricorso al “sovraumano”! Egli chiedeva invece di ripensare l’idea che quasi tutti avevano di Dio, mostrava di non disprezzare mai ciò che è umano e tanto meno gli uomini, a qualunque cultura, gente o religione appartenessero, qualunque fosse il loro stato sociale. Gesù non parlava di un Dio grande, onnipotente, vittorioso e che dunque si impone agli uomini, lo accolgano o non lo accolgano: parlava di un Padre che chiamava Abinu, “Padre nostro”, che nella preghiera personale chiamava confidenzialmente Abba (Mc 14,36), “Papà”; un Dio che conosce solo l’onnipotenza dell’amore, un Dio che desidera dare amore anche a chi non lo merita, un Dio che vuole salvare chi è perduto. Gesù voleva narrare un volto di Dio diverso da quello comunemente predicato, voleva togliere le immagini perverse date a Dio dagli uomini, più preoccupati di essere temibili che credibili. Se è stato accusato, rifiutato, condannato, è proprio perché aveva poche volte Dio sulle labbra, e quando lo nominava si preoccupava che gli ascoltatori capissero che era un Dio il cui amore non va mai meritato. Per questo anteponeva l’umanità alla religione, il bisogno di chi incontrava alle osservanze; per questo si interessava più alla sofferenza degli altri che ai loro peccati. Ed è per questo suo comportamento che Gesù “si è perduto”, è stato annoverato tra i malfattori (cf. Lc 22,37; Is 53,12), giudicato amico di peccatori evidenti (cf. Mt 11,19; Lc 7,34), impuro perché non ossessionato dalla purità e dall’ansia immunitaria.
La carne di Gesù era parola umana, come la carne di ciascuno di noi è una parola d’uomo. E il suo essere “Parola di Dio” non era venuto meno nel diventare carne umana, quel corpo di Gesù di Nazaret che gli occhi hanno visto, gli orecchi hanno ascoltato, le mani hanno palpato (cf. 1Gv 1,1). Non è un caso che i suoi primi seguaci, chiamati dai pagani “cristiani” (At 11,26), cioè di Cristo, venissero però dichiarati “atei”, senza Dio: infatti non lo nominavano né invano né molto, ma tramite la loro adesione a Gesù Cristo andavano a Dio (cf. Gv 14,6-7) e lo chiamavano semplicemente Padre.