Rocca, luglio 2012
di ENZO BIANCHI
“Coraggio, sono io, non temete!” (Mc 6,50). Più volte in questi ultimi tempi sono ritornato alla frase rivolta da Gesù ai discepoli impauriti per la tempesta sul lago di Tiberiade
Nolite timere
“Coraggio, sono io, non temete!” (Mc 6,50). Più volte in questi ultimi tempi sono ritornato alla frase rivolta da Gesù ai discepoli impauriti per la tempesta sul lago di Tiberiade. Del resto “non temete” è una delle esortazioni più presenti nei racconti evangelici, fino al messaggio dell’angelo alle donne nel mattino della risurrezione. E, sulla scia di questo messaggio evangelico, come dimenticare l’esortazione che aprì il pontificato di Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura! Spalancate le porte a Cristo!”?
Noi ci troviamo in tempi di crisi, in cui ci sembra che le ragioni di paura, di sconforto, di delusione angosciata debbano prendere il sopravvento: la situazione sociale deteriorata nei nostri paesi che pensavamo destinati a un benessere diffuso e irreversibile, l’avvitarsi di conflitti e violenze in medioriente come in Africa, il moltiplicarsi di ingiustizie e di sopraffazioni a tutte le latitudini sembrano colorare di tinte sempre più fosche il nostro presente e il futuro delle generazioni che si affacciano sulla soglia della storia. E, in mezzo a tutto questo, le turbolenze in seno alla chiesa, il moltiplicarsi di eventi che la fanno apparire sempre più affine alle logiche mondane, la sua perdita di credibilità presso i più semplici... C’è ancora posto per la speranza cristiana? E noi possiamo ancora avere una parola che ispiri fiducia agli uomini e alle donne del nostro tempo? Sappiamo ancora suscitare il desiderio della fede, quell’anelito a riporre la fiducia nel Signore della vita, nel Dio di misericordia di cui Gesù è stato la narrazione con tutta la sua vita e con la sua morte per amore?
Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: “Dov’è, cristiani, la vostra speranza?”. Il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità: di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (cf 1Pt 3,15). Responsabilità oggi quanto mai drammatica e decisiva per la chiesa: è ancora in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che val la pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret?
Domande ineludibili perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che “è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani” (La città di Dio 6,9,5). Il cristiano trova in Cristo la propria speranza (cf 1 Tim 1,1), non vive cose e realtà altre e nuove, ma arricchisce e alimenta di un senso nuovo e altro tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è risorsa di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto: la vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare, non hanno l’ultima parola.
Oggi viviamo una stagione in cui siamo tentati di disperare, in cui – turbati come siamo dal clamore di vicende che di evangelico hanno ben poco e che paiono dilaniare la chiesa al suo interno – sembriamo incapaci di ascoltare la voce sommessa della testimonianza quotidiana di tanti cristiani che perseverano nel camminare alla sequela del loro Signore in mezzo alle prove. Ed è proprio in questa situazione apparentemente senza sbocco che siamo chiamati a narrare la nostra speranza con il perdono, ad affermare che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita, a plasmare la nostra presenza nel mondo sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza per tutti.
Allora, “coraggio, non temiamo!” perché il Signore è con noi, è con la sua chiesa, è con l’umanità intera che tanto ha amato. È questa la logica pasquale, quella “logica” che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che non si è scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, fino al martirio. Se dobbiamo vedere oggi il volto autentico della chiesa che sa “sperare per tutti”, è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma concretissima e convincente narrazione. Lì troviamo la risposta all’inquietante domanda: “dove sta andando la chiesa?”.