Rocca, giugno 2012
di ENZO BIANCHI
La rinuncia – termine che oggi pare caduto in profondo discredito, così come i suoi compagni “ascesi” e “sacrificio” – è elemento costitutivo di una maturità umana
RINUNCIA
“Rinuncio a Satana, a tutte le sue opere e a tutte le sue seduzioni”. Così afferma ogni battezzato – o quanti per lui hanno chiesto il battesimo – prima di professare la propria fede ripetendo il Credo apostolico. La rinuncia – termine che oggi pare caduto in profondo discredito, così come i suoi compagni “ascesi” e “sacrificio” – è elemento costitutivo di una maturità umana, prima ancora che di una vita spirituale cristiana. Perché se è vero che ogni essere umano solo attraverso le scelte – e quindi le rinunce speculari ad esse – cessa di essere l’eterno bambino viziato che pretende di avere tutto, è altrettanto vero che il discepolo che intende seguire il Signore Gesù può farlo solo dopo aver deciso quale padrone servire (cf. Lc 16,13).
In realtà la rinuncia è sempre a caro prezzo perché obbliga a due pratiche da cui fuggiremmo volentieri: l’ascesi e il discernimento, pratiche che hanno tutto da guadagnare ad essere esercitate in modo complementare. Un’ascesi senza discernimento, infatti, rischia di essere controproducente e di allontanare da quella carità che resta il fine ultimo di ogni pratica cristiana. Ma anche un discernimento incapace di coinvolgere il corpo nella fatica di trovare il giusto cammino e privo dell’esercizio regolare e della tensione alla carità finisce per perdere la propria dimensione umana e divenire lucidità luciferina, simile all’intelligenza dei demoni, che erano capaci di proclamare la qualità messianica di Gesù ma si guardavano bene dal seguirlo nel suo cammino di vita donata per gli altri, fino alla morte.
Riscoprire quindi il significato della rinuncia comporta un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo ci rifiutiamo di esercitare, avendo abdicato a ogni analisi critica verso tutto quanto la mentalità corrente ci presenta come stile di vita “normale”. Così non sappiamo più distinguere e, di conseguenza, nemmeno scegliere tra necessario e superfluo, bisogni e desideri, sogni e utopie, bene comune e interesse personale. Un simile decadimento culturale ed etico è legato anche a uno smarrimento del “senso” attribuibile alla rinuncia: perché mai dovremmo rinunciare a qualcosa se non sappiamo per quale ragione e in vista di quale obiettivo ci priviamo di un’opportunità? La rinuncia svuotata della speranza, il sacrificio isolato dalla solidarietà, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene perseguito ci appaiono allora pratiche mortificanti, retaggio di un tempo di ristrettezze obbligate che vorremmo cancellare dalla memoria.
Ora, la vita “nuova”, propria del discepolo di Cristo, è conformazione alla vita di Gesù che ci ha narrato Dio e per questo esige anche comportamenti “non naturali” o addirittura estremi, come la preghiera incessante e l’amore del nemico. Ma questo è perseguibile solo con un esercizio costante, uno sforzo perseverante, mentre il mito contemporaneo della spontaneità porta a contrapporre fatica e autenticità e si rivela ostacolo decisivo alla maturazione umana e alla comprensione dell’importanza della rinuncia per qualsiasi crescita spirituale. In questo senso rinuncia è adesione consapevole all’alternativa tra obbedienza a Dio e asservimento agli idoli, è accettazione della propria identità come realtà plasmata dalla grazia di Dio, è acconsentire alla relazione vivificante con questo Altro. E non si dimentichi, in un mondo tentato dal “virtuale” che ogni sforzo spirituale implica anche il coinvolgimento dell’intero corpo, perché senza una precisa componente fisica, il cristianesimo si riduce a esercizio intellettuale, a gnosi, oppure alla sola dimensione morale.
Allora ascesi e sacrificio, lungi dall’asservire chi le pratica, svelano che la libertà autentica di ogni essere umano si manifesta nel suo divenire capace di donazione di sé‚ per amore di Dio e del prossimo, aprendosi al dono preveniente di Dio. Liberati dall’amore di sé, dall’egocentrismo saremo trasformati da individui contrapposti agli altri in persone capaci di comunione e gratuità, di dono e di amore. La nostra rinuncia si rivelerà allora umanizzante e non disumanizzante, in grado di aiutarci nell’incessante compito di fare della nostra vita un capolavoro, un’opera d’arte. Del resto la bellezza di Cristo – di cui siamo rivestiti al battesimo, proprio grazie a quelle “rinunce” propedeutiche all’adesione di fede al Signore – è solo un altro nome della santità cui tutti siamo chiamati.