Rocca - Maggio 2012
di ENZO BIANCHI
Questa crisi può anche diventare stimolo per riscoprire il valore non solo del lavoro ma, prima ancora, della persona che lavora
«Un uomo interrogò un monaco del deserto di Tebe: “Abba, come potrò essere salvato?”. E l’anziano rispose: “Siedi nella tua cella e fa’ silenzio, esamina i tuoi peccati e guardati dal giudicare qualcuno, non accettare doni da nessuno, ma le tue mani siano sufficienti per il tuo nutrimento: se non sei capace di fare doni con il frutto del tuo lavoro, almeno soddisfa con le tue mani le necessità del tuo corpo”». In tutta la tradizione monastica, fin dalla più antica, il lavoro è visto in stretta connessione con la povertà e la condivisione, atteggiamenti cristiani su cui ci siamo soffermati nelle riflessioni dei mesi precedenti. Del resto, già il Nuovo Testamento è esplicito in tal senso: “Ciascuno lavori con le proprie mani, in modo da fare il bene e soccorrere i bisognosi” (Ef 4,28), “Chi non vuole lavorare neppure mangi ... Noi chiediamo e invitiamo nel Signore Gesù Cristo a lavorare in pace e a mangiare il pane che si è guadagnato” (2Ts 3,10.12).
“Guadagnarsi il pane con il sudore della fronte”, “lavorare con le proprie mani” sono espressioni bibliche legate a un’economia agricola, pastorale e artigiana che indicano ancora oggi, nel nostro mondo post-industriale, l’assoluta necessità di lavorare con tutte le capacità di cui ciascuno dispone: è elemento primario della “povertà” intesa come valore di non sottomissione al denaro, di non dipendenza dalla ricchezza e dai beni, di libertà nel custodire e alimentare la dignità propria di ciascun essere umano. Lavorare è anche imparare a conoscere il valore delle cose – la fatica che sono costate, la bellezza che racchiudono, l’utilità cui sono destinate – e a non scambiarlo con il loro prezzo.
Ma lavorare è anche condizione indispensabile per poter condividere con chi – perché senza lavoro o con un lavoro non sufficiente a garantire una vita decorosa a sé e ai propri cari – trova i propri bisogni primari (pane, vestito, tetto) insoddisfatti. La Costituzione italiana, che ha voluto la nostra repubblica “fondata sul lavoro”, garantisce il diritto-dovere al lavoro e a una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”: questo preciso indirizzo voluto per tutti i cittadini, richiama anche i cristiani a una dimensione intrinsecamente legata alla loro fede. Lavorando, infatti, ciascuno di noi contribuisce alla creazione continuamente in atto da parte di Dio, che ha affidato il creato alla custodia vigile e attiva dell’uomo: verità difficile da riconoscere quando vediamo situazioni di lavoro disumane, quando la schiavitù – nelle sue forme antiche e moderne – riduce l’essere umano a proprietà altrui, quando il prodotto del lavoro è strumento di violenza e di morte; ma verità che fornisce a ciascuno di noi il criterio per discernere perché e come lavorare, cosa cercare nel lavoro, cosa offrire attraverso il frutto del lavoro. In questo senso, la solidarietà dovrebbe nascere spontanea all’interno di una convivenza civile laboriosa e la storia dell’umanità è ricca di esempi in tal senso, dalle prime comunità cristiane in cui il frutto del lavoro di ciascuno era messo a disposizione di tutti, alle società operaie di mutuo soccorso, alle collette di solidarietà...
Il lavoro, infine, è un ambito privilegiato in cui a ciascuno è dato di poter esprimere le proprie capacità, trasformando doni naturali, conoscenze e abilità acquisite, esperienza maturata in ricchezze destinate al bene comune: lavorare è anche un modo per prendere consapevolezza delle proprie potenzialità, per realizzare se stessi e, di conseguenza, per rendere gli altri partecipi di ciò che uno è, prima ancora di ciò che ha. In questo senso, lavorare è una fierezza: non orgoglio né vanto, ma la fierezza di chi riconosce il bene che lo abita e lotta contro il male che lo minaccia. Non a caso il dramma di chi resta senza lavoro o di chi nel lavoro è oppresso non è innanzitutto economico: è la ferita inferta alla propria dignità, il senso di inutilità sociale, l’offesa per l’ingiustizia patita che rende insopportabile l’inoperosità forzata così come lo sfruttamento iniquo.
Non a caso la crisi che le nostre società opulente stanno attraversando deriva anche da una progressiva smaterializzazione del lavoro, da uno smarrimento della percezione del bene comune che con il lavoro si può costruire. Ma questa crisi può anche diventare stimolo per riscoprire il valore non solo del lavoro ma, prima ancora, della persona che lavora, per riportare al cuore delle “attività produttive” la nobiltà dell’essere umano che con tutte le proprie potenzialità contribuisce a un presente e un futuro di giustizia e di pace, per sé e per tutti.