Rocca, marzo 2012
di ENZO BIANCHI
La comunità cristiana è chiamata in ogni stagione della sua storia a esercitare il discernimento non solo e non tanto per individuare chi sono i poveri, ma soprattutto per farsi prossima a loro
CONDIVISIONE E SOLIDARIETÀ
La situazione socio-economica nella quale ci troviamo ha provocato un aumento del numero di persone che anche nel nostro paese vive sotto la soglia della povertà, anche se la condizione dei “poveri” in Italia non può essere paragonata a quella di chi vive sotto l’analoga soglia in tanti altri paesi del mondo: il sistema sanitario e quello previdenziale, i servizi sociali, le associazioni di volontariato offrono anche nelle situazioni più difficili un livello di protezione e di aiuto altrove impensabili. Ora, questa rete di “mutuo soccorso” – pubblico o privato, regolamentato o spontaneo, ereditato o reinventato – non è un dato naturale e incontrovertibile, ma nasce e si alimenta in una cultura della condivisione cui il messaggio evangelico è storicamente tutt’altro che estraneo.
Condivisione, infatti, è uno dei più antichi nomi cristiani della povertà come beatitudine, della povertà scelta per servire Dio e non la ricchezza: mettere in comune i propri beni affinché nessuno sia bisognoso è la norma che già la comunità apostolica a Gerusalemme metteva in pratica nel quotidiano. Non dimentichiamo che il termine koinonia, che normalmente traduciamo con comunità, negli Atti degli apostoli indica anche la comunione di ciò che si possiede. Così i credenti “erano perseveranti nella comunione ... avevano ogni cosa in comune ... ogni cosa era tra loro comune” (At 2,42; 2,44; 4,32). Anche il monachesimo cenobita – che per il fatto stesso di essere strutturato in comunità di persone che lavorano guadagnandosi da vivere con le proprie mani raramente ha conosciuto la precarietà di vita propria di singoli eremiti o di monaci mendicanti e itineranti – ha fatto di questa condivisione dei beni la modalità in cui vivere la povertà evangelica: mettere a disposizione della comunità i beni – materiali e spirituali – è la condizione fondamentale per “seguire poveri Gesù povero”.
Una prassi, quella monastica della condivisione, che nel corso della storia della chiesa è riemersa con forza profetica ogniqualvolta un gruppo di battezzati ha cercato di ritornare alle istanze evangeliche, abbandonando privilegi acquisiti e facendosi solidale con i più poveri, fino a condividerne la vita stessa. Una prassi che anche a livello sociale trova modo di dispiegarsi nella misura in cui si è consapevoli dell’uguaglianza di ogni essere umano, della necessità di un’equa distribuzione delle risorse naturali, del legame intrinseco tra bene comune e benessere personale.
Certo, condivisione e solidarietà faticano a trovare spazio quando si idolatra il libero mercato – che così libero non è mai – o si assolutizza il diritto alla proprietà privata. In questo senso i cristiani, soprattutto nei luoghi e nei periodi di difficoltà economiche, hanno la responsabilità di testimoniare la logica feconda della koinonia, contestando nella pratica quotidiana l’accumulo dei beni: questi dovrebbero sempre avere come destino ultimo la condivisione. Il rapporto con la ricchezza è uno dei “luoghi” in cui lo stile di vita è esso stesso contenuto del messaggio evangelico. Esistono infatti una semplicità di vita, un’essenzialità e una bellezza legate alla sobrietà garantite e rinnovate ogni giorno dalla condivisione con i più poveri. E qui si colloca la caratteristica peculiare della condivisione cristiana che nasce dalla consapevolezza di formare un solo corpo ed è destinata a non esaurirsi all’interno della più o meno ristretta comunità di vita: come l’amore che deve animarla, si dilata a partire da un centro, un cuore – la comunità – e raggiunge via via cerchie più ampie di persone. La solidarietà con i poveri significa avere l’occhio per il povero, saperne discernere la presenza e i bisogni, considerare i poveri come sacramento di Cristo ma anche come epifania del peccato nel mondo, vittime nella storia dei potenti e dei dominatori di turno. La comunità cristiana è chiamata in ogni stagione della sua storia a esercitare il discernimento non solo e non tanto per individuare chi sono i poveri, ma soprattutto per farsi prossima a loro, chiunque essi siano e ovunque si trovino. Così si riscoprirà nelle pieghe delle ingiustizie sociali quella povertà vissuta da Gesù a partire dal suo farsi uomo, una povertà capace di arricchire tutti “nella larghezza, lunghezza, altezza e profondità dell’amore di Cristo” (cf. Ef 3,18-19).