21 dicembre 2008
di ENZO BIANCHI
Forse oggi dovremmo tornare al cuore del Natale, al Dio fatto uomo perché l’uomo possa diventare Dio, a quel neonato che ridesta in ciascuno di noi l’immagine e la somiglianza con Dio che niente e nessuno potrà mai cancellare
Avvenire, 21 dicembre 2008
Il mistero dell’incarnazione che le chiese cristiane festeggiano in questi giorni è emblematico di come la teologia e la spiritualità d’oriente e d’occidente abbiamo cominciato a differenziarsi già nel primo millennio: l’oriente ha sottolineato la dimensione di “epifania”, cioè la “manifestazione” del Divino avvenuta in Gesù di Nazaret, mentre l’occidente ha privilegiato l’aspetto storico dell’incarnazione, il parto di Maria, la nascita a Betlemme del Messia atteso. Questa differenza di accenti si è riversata anche sull’iconografia che, in occidente, ha via via abbandonato la natura di sintesi dossologica propria delle icone orientali, per insistere sulla concretezza di un evento storico caricato di una forte simbologia teologica.
La raffigurazione della nascita di Gesù a Betlemme ne è un esempio paradigmatico. L’affresco della Natività (1437-1445) ad opera del Beato Angelico al Convento San Marco di Firenze ci può guidare in un affascinante percorso verso il cuore del messaggio cristiano e la lettura diversificata che si può avere di questo “evangelo”, di questa buona notizia per gli esseri umani oggetto del beneplacito di Dio, gli “uomini di buona volontà” del canto del Gloria. Se prima, con Giotto, Duccio e Lorenzo Monaco, troviamo ancora tracce di un’ispirazione bizantina, dunque del comune sentire di due spiritualità non ancora estranee l’una all’altra – si pensi per esempio alla figura di Giuseppe, raffigurato come tentato dal diavolo in oriente e come dormiente assorto nel rievocare il sogno in occidente – con il Beato Angelico il bambino Gesù è ormai al cuore del dipinto, fulcro verso cui converge l’adorazione di Maria e di Giuseppe e del creato intero. Nelle icone orientali, la Madre di Dio non guarda mai verso il Figlio che ha partorito, ma volge il suo sguardo oltre, verso il mistero ma anche verso il fedele che contempla l’icona; qui invece, lo sguardo adorante e sereno di Maria è posato sul bimbo nudo a terra, mentre le mani giunte invitano al raccoglimento e alla preghiera. Stesso atteggiamento di adorazione del bambino in Giuseppe ma anche – altra novità – in personaggi, soprattutto santi, totalmente estranei all’evento storico di Betlemme ma evocati dall’artista e resi testimoni, confessori dell’incarnazione. Anche gli angeli, più che annunciare l’evento ai pastori, adorano in una solenne liturgia celeste.
Ormai il racconto evangelico della nascita di Gesù si è arricchito di particolari propri agli scritti apocrifi, come l’asino e il bue, ma soprattutto ha assunto un’altra dimensione di “incarnazione”: il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è venuto ad abitare in mezzo ai “suoi”, ma questi ultimi non sono solo i pastori di Betlemme o i magi d’oriente ma anche i “nostri”, gli abitanti delle nostre contrade, i principi delle nostre terre, gli umili artigiani delle nostre botteghe, i contadini delle nostre campagne. Questa attualizzazione della venuta di Gesù in un contesto familiare con campagne nostrane e stalle nostrane si accentuerà sempre più e, assieme ad essa, si svilupperà anche quella dimensione di adorazione sottolineata dal dipinto del Beato Angelico.
La riflessione teologica soggiacente a questa evoluzione è evidente: se il bambino di Betlemme è il Messia, Figlio di Dio, il Re dei re, Signore dei signori (Ap 17,14 e 19,16), allora ogni ginocchio si deve piegare (cf. Fil 2,10) al suo cospetto, compresi quelli di re, principi e signori a lui sottomessi come al loro sovrano celeste. Ma questa comprensione si spingerà ancora oltre: Gesù è la luce del mondo (Gv 8,12), la luce che brilla nelle tenebre (cf. Gv 1,5). Come esprimere pittoricamente questa verità di fede? Facendo del bambino in fasce la fonte che illumina ogni cosa e ogni presenza attorno a sé. Nei dipinti fiamminghi, poi in quelli di Georges de la Tour in modo eclatante, ma anche nel Correggio, in Carracci, Rubens, El Greco, il piccolo Gesù irradia luce all’intorno, è lui la fonte di ogni luce: non illuminato da un fascio di luce proveniente da altrove ma scaturigine della luce stessa, di una luminosità “altra” da quella umana che rende luminoso tutto ciò con cui entra in contatto.
Analogamente, l’universalità dell’adorazione resa al frutto del grembo di Maria porterà a privilegiare sempre più la scena dell’omaggio di pastori e magi rispetto al più discreto, umile e umanissimo “segno” del neonato posto in una mangiatoia (cf. Lc 2,12): così l’immagine evocativa di una nascita che squarcia simbolicamente i cieli per aprire il credente al mistero lascia il posto alla narrazione di un evento umano la cui magnificenza sta nella ricchezza della coreografia e degli astanti e non nella qualità divina del Figlio dell’uomo nato da Maria.
In oriente una sola immagine per la natività di Gesù, sintesi dossologica dell’incarnazione, mentre in occidente tutto è letto in modo più storico, più attento agli eventi svoltisi nel tempo, tesi a mettere in risalto l’umanità di Gesù, vero infante. Ecco perché in occidente abbiamo immagini diverse: la nascita di Gesù, l’adorazione dei pastori, l’adorazione dei magi... mentre alla capanna, alla casa non più grotta, accorrono per dare volto ai pastori i nostri contadini e ai magi i nostri nobili, con la natura circostante che conferisce un aspetto locale: neve e geli per l’inverno nordico, campagna verde e fiorita per il più tiepido meridione italico.
Sì, forse oggi dovremmo tornare al cuore del Natale, al Dio fatto uomo perché l’uomo possa diventare Dio, a quel neonato che ridesta in ciascuno di noi l’immagine e la somiglianza con Dio che niente e nessuno potrà mai cancellare: stupiti contempleremmo così un bambino debole, fragile infante che narra Dio.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: Avvenire