Pubblicato su: JESUS, maggio 2011
di ENZO BIANCHI
L’indifferenza e lo stordimento regnano, come un crimine per il quale nessuno ha occhi per discernere e voce per denunciare. Così, a parlare sono le armi
“ ‘Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?’ La sentinella risponde: ‘Viene il mattino... se volete, pregate... convertitevi!’ ”. Le parole del profeta Isaia (21,11-12) risuonano insistentemente nei cuori e sulle labbra dei credenti in questi ultimi tempi, perché la sensazione è quella di dover attraversare una stagione buia, di dover percorrere un sentiero nella nebbia. Addirittura “manca il respiro”, come ha scritto qualcuno, ed è sensazione che si avverte nella società come nella chiesa. E se in passato qualcuno denunciava solo la crisi della società, dell’occidente, dell’Europa, ora ci si rende conto di quanto questa crisi sia oggettiva, profonda ma riguardi anche le comunità cristiane, le chiese: nella crisi della civiltà occidentale si colloca infatti anche la crisi della chiesa. Né potrebbe essere altrimenti: innanzitutto perché il cristianesimo appartiene alla genealogia di questa cultura e poi perché è sempre forte e attraente la tentazione di stare nel mondo attraverso un “essere del mondo”, di avere una presenza mondana incapace di resistenza, di profezia, persino di indignazione di fronte al male.
È solo spoliazione, diminutio, della chiesa? È solo povertà che appare sotto il segno della croce, dell’abbassamento, dello svuotamento, a immagine del Figlio di Dio fattosi uomo? Possiamo accogliere l’osservazione di mons. Albert Rouet, vescovo di Poitiers: “Si voleva una chiesa serva, povera; e ora che l’abbiamo ci sentiamo perduti!”? Sarebbe troppo facile fermarsi qui nella risposta alla crisi o consolarsi con il fatto che le crisi hanno sempre accompagnato la comunità cristiana nella storia.
In realtà, la crisi è acuta, si protrae nel tempo e non pare aver ancora toccato il fondo. Non si tratta di essere profeti di sventura o pessimisti privi di speranza. Anzi, siamo convinti che andando a fondo si raggiungono le fondamenta e ci si può allora rialzare e iniziare a ricostruire le rovine... Ma per ora non appaiono segni di un cambiamento di passo o di direzione. Da due decenni almeno andiamo denunciando che la nostra società sta compiendo piccoli passi verso la barbarie, e più volte abbiamo avvertito che ci trovavamo come in un turbine, sempre più in preda a miti e idoli prepotenti: si è avviato da tempo un processo che autorizza ad apparire e affermarsi, anche in modo arrogante, il peggio che c’è in ogni individuo; viene progressivamente a mancare la forza dei principi non negoziabili della legalità, dell’uguaglianza di fronte alla legge, della giustizia, senza i quali non è possibile nessuna vita della polis.
Abbiamo permesso alla menzogna di manifestarsi, dapprima banalizzandola a semplice ironia, poi accettandola supinamente come modalità stabile della comunicazione, al punto che oggi non ci si chiede nemmeno più se un’affermazione è credibile o meno: la menzogna avvolge tutto come una melma uniforme, non conosce smentite, non suscita reazioni, né desta quell’indignazione che esige l’affermarsi della verità...
Abbiamo nutrito un’identità tribale sempre più ripiegata su se stessa, senza l’altro; e così oggi ci accorgiamo di possedere un’identità “contro” gli altri, un’identità che vuole affermarsi ed essere riconosciuta in modo visibile per contrapposizione: la paura dell’altro viene allora seminata, fomentata, cavalcata, strumentalizzata per ragioni di potere e di tornaconto. Si affermano così, senza destare scandalo, parole di esclusione e di negazione dell’altro che, profugo o migrante, si è fatto a noi prossimo.
Abbiamo costatato di nuovo la seduzione, l’attrazione fatale della guerra, alla semplice condizione di non chiamarla tale. Se ci sono state reazioni per la guerra del Golfo e per quelle in Afghanistan e in Iraq – guerre lampo, naturalmente, anzi, rapide operazioni umanitarie, come interventi chirurgici non invasivi... – il sopraggiungere di quella in Libia ci ha colti ormai assuefatti, incapaci di discernimento, muti... Neppure la comunità cristiana, che sembrava aver fatto un’opzione per la pace senza se e senza ma, non sa cosa dire né come reagire.
L’indifferenza e lo stordimento regnano, come un crimine per il quale nessuno ha occhi per discernere e voce per denunciare. Così, a parlare sono le armi – legittimate in modo confuso e incerto da alcune istanze mondiali – e il sopruso, la prevaricazione, oppure l’ipocrisia di chi ora maledice un tiranno sanguinario accolto solo pochi mesi fa con sfarzo e onori da basso impero per siglare accordi e alleanze a violazione dei diritti umani fondamentali e per fornirgli armi per la guerra contro la sua gente. Così la democrazia è manomessa, si tenta di stravolgere persino il patto costitutivo della nostra convivenza civile, e si prosegue pervicacemente guardando solo agli interessi personali. La situazione purtroppo è questa: un clima sociale di stanchezza, non di rassegnazione, ma certo di frustrazione e di smarrimento di attese.
In questa astenia, in questa debolezza di intenzioni e di energie per realizzare il “bene comune”, la comunità cristiana è confusa, afona anche perché quasi tutte le sue guide non sembrano conoscere una parola chiara, profetica, come sarebbe loro compito. Qualche voce in realtà si leva, evangelica, schietta, ma il mutismo imperante da un lato e il frastuono assordante dall’altro la rendono quasi impercettibile e comunque soffocata da quell’assuefazione alla menzogna costante che tutto stordisce.
Non so a cosa hanno pensato molti cattolici cantando nei giorni della Settimana santa “Gerusalemme, Gerusalemme, convertiti al Signore tuo Dio!”. A chi hanno indirizzato questa esortazione, questo lamento del Signore? Certo, ciascuno innanzitutto a se stesso, com’è giusto che sia. Ma l’appello alla conversione riguarda anche la realtà di un corpo, un popolo, una comunità: è la chiesa tutta a essere invitata a tornare al suo Signore, non impugnando la croce ma accettando di essere segnata dalla croce. Un ritorno che si fa anche strenue resistenza all’amara conclusione sempre più condivisa: dopo aver tanto lottato per cambiare in meglio la società, ci troviamo a lottare perché una società imbarbarita, con tutta l’arrogante forza mediatica, non cambi anche noi.