Pubblicato su: JESUS - gennaio 2011
di Enzo Bianchi
Ognuno di noi è chiamato a pensare fino all’ultimo all’amore: all’amore che è capace di dare e all’amore che sa ricevere, perché qui si gioca la dignità e la qualità di ogni essere umano
Sovente appare all’orizzonte della nostra vita sociale l’evento del suicidio: una persona si dà la morte, decide che per lei morire e uscire da questa vita è meglio che rimanervi. Molte di queste partenze avvengono quasi in silenzio, occultate, ma alcune – a causa della notorietà della persona coinvolta – finiscono per accendere dibattiti sui media. Così è successo di recente: alcuni hanno cercato di leggere l’atto compiuto dal regista Monicelli come coerente alla sua maniera di vivere e al suo carattere, fino quasi ad esaltarlo; altri si sono affrettati a condannare e ad alimentare la triste rissa di chi vuole scontrarsi con gli altri a ogni costo, in nome della propria ideologia e della propria visione della vita e della morte... Così, una decisione tragica diventa un pretesto per riaffermare una contrapposizione tra parti incapaci ancora una volta di ascoltarsi. Se invece fossimo onesti, riconosceremmo che il suicidio è un gesto che appare come un enigma, una domanda muta che esige un grande rispetto.
Da quando gli uomini sono sulla terra, alcuni di loro, nonostante la spinta alla vita che li abita fin dal seno materno, vogliono farla finita. Cosa li spinge? Un dolore, una sofferenza insopportabile? Una vergogna insostenibile? Una mancanza di forza nell’affrontare il futuro che viene incontro? La perdita del senno al punto da non sapere ciò che si fa? L’esito di una malattia? Ogni situazione è diversa dall’altra, e se la chiesa ha sempre condannato questo gesto è perché la vita non appartiene all’uomo: essendogli stata data, questi dovrebbe puntualmente ridarla al suo Creatore al momento della morte con un atto, una volontà precisa. Un atto, quello del morire, vissuto a denti stretti nel dolore e nella fatica di comprenderne il senso, un atto compiuto a volte con confidenza e speranza, ma sempre per il credente la morte dovrebbe essere un Amen all’ora che sopraggiunge e che non si può scegliere. Sappiamo che la chiesa nella sua condanna del suicidio è giunta anche a comminare azioni punitive nei confronti di coloro che commettono questo peccato, fino a vietare la sepoltura nel camposanto cristiano, forse per evitare agli astanti il pericolo di un’attrazione seducente verso la libido mortis.
Ma se leggiamo le Scritture, troviamo anche in esse, in quanto testimoni della storia umana, l’evento del suicidio. Sansone, eroe investito dello Spirito santo, si diede la morte per far perire insieme a lui i nemici filistei (Gdc 16,28-30); Saul, il primo re unto messia, si gettò sulla propria spada nella battaglia di Gelboe (1Sam 31,1-6); ma anche Razis, l’eroe maccabeo “si piantò la spada in corpo, preferendo morire nobilmente piuttosto che divenire schiavo degli empi” (2Mac 14,41-42). Su questi suicidi la bibbia non esprime condanna né approvazioni, lasciandoli nello spazio dell’enigma. D’altronde, le Scritture ricordano anche le parole di testimoni o profeti che giungono a sentire la tentazione del suicidio nell’ora della persecuzione, della notte tenebrosa, del non senso, come Geremia o Giobbe che malediranno il giorno della loro nascita (Ger 20,14.17; Gb 3,3). Sì, la bibbia ci rammenta la possibilità del suicidio come tentazione anche per gli uomini di Dio! Anche in ciascuno di noi sonnecchia questa oscura possibilità: in certe situazioni c’è la tentazione di farla finita con una vita che non si riesce più a cogliere come tale.
Ma l’evento del suicidio, se appare un enigma, è anche sempre fonte di dolore e di colpevolizzazione in chi resta. Purtroppo questo aspetto è spesso dimenticato: il suicidio “uccide” anche quelli che vivevano con il suicida, “uccide” la comunione che esisteva tra loro, uccide la possibilità di comprensione e suscita in chi rimane domande angosciose e senza risposta. Da qui la necessità, di fronte a un suicidio, di astenersi assolutamente da ogni giudizio, e di cogliere invece l’occasione per verificare il “suicidio che ci abita” tutti e che sovente consumiamo senza darci la morte in senso fisico e definitivo.
Oggi, va riconosciuto, la vita assume a volte aspetti insopportabili, con vecchiaie interminabili e sempre più debilitate, con lunghe malattie vissute in un progressivo deteriorarsi e in un accanimento terapeutico disumanizzante. Se in queste condizioni si intersecano solitudini e isolamenti soggettivi e non sempre reali, se si smarriscono le ragioni di senso, allora il suicidio nelle sue varie forme diventa una tentazione. Ma ognuno di noi è chiamato a pensare fino all’ultimo all’amore: all’amore che è capace di dare e all’amore che sa ricevere, perché qui si gioca la dignità e la qualità di ogni essere umano. Continuare ad amare e a essere amati, attraversando le tenebre della malattia, del malessere, della sofferenza, della vergogna: è questa la vera sfida della vita.