9 luglio 2008
di ENZO BIANCHI
Tutto nella loro vita ci consente di affermare che non sono morti diversamente da come sono vissuti: in un incessante cammino di conversione, in un rinnovato dono di sé e della propria vita
La Stampa, 9 luglio 2008
Domenica scorsa Valerio Pellizzari su queste pagine ha proseguito la sua inchiesta, avviata con un’intervista a p. Armand Veilleux il 1° giugno, sulle circostanze ancora non chiarite dell’uccisione di sette monaci trappisti in Algeria, avvenuta più di dodici anni or sono. Il suo accurato lavoro fornisce un quadro abbastanza coerente e verosimile a una serie di notizie, ipotesi, dubbi e perplessità emerse a più riprese in questi anni in cui ben poco è stato fatto per giungere a una ricostruzione attendibile di quanto realmente accaduto. Anche all’interno della chiesa e tra quanti sono stati più vicini ai monaci uccisi vi sono due distinti atteggiamenti, entrambi comprensibili: da un lato il desiderio che anche la tragica morte dei monaci fosse vissuta in continuità con la loro testimonianza di vita: il dialogo con tutti, la vicinanza a quanti più hanno sofferto tra il popolo negli anni della sanguinosa guerra tra i «fratelli della pianura» (i militari e le forze di sicurezza agli ordini del governo algerino) e i «fratelli della montagna» (i militanti dei gruppi islamici armati), la preghiera e la mitezza per osare l’impossibile, il disarmo e la riappacificazione.
È la linea scelta dalla chiesa d’Algeria, dall’ordine trappista e da quasi tutti i familiari delle vittime. D’altro lato i parenti di un monaco e p. Armand Veilleux - che all’epoca aveva seguito in prima persona la vicenda come procuratore generale dei cistercensi e aveva preteso e ottenuto di riconoscere i cadaveri prima della sepoltura, scoprendo che nelle bare erano state deposte solo le teste - che cinque anni fa hanno presentato una denuncia al Tribunale di Parigi affinché fosse fatta luce e giustizia sull’accaduto. Anche in loro nessuna volontà di vendetta, ma un unico desiderio, espresso lapidariamente da p. Veilleux: «Voglio perdonare, ma prima voglio sapere chi devo perdonare».
Ma, per non ridurre questo sequestro trasformatosi in massacro in uno dei tanti gialli d’estate la cui soluzione sembra l’esito di un macabro gioco, dovremmo chiederci se le circostanze precise del rapimento e della morte dei monaci - prelevati da integralisti o da settori deviati dei servizi segreti; sgozzati dai loro carcerieri oppure uccisi più o meno deliberatamente dai militari che avrebbero dovuto liberarli - cambiano qualcosa al significato profondo del loro martirio, cioè alla testimonianza fino al sangue resa con tutta la loro vita. In realtà i sette trappisti francesi non hanno vissuto il loro martirio come impresa eroica, come gesto di uomini valorosi, bensì come evolversi di una vita interamente donata e che, come tale, non si arresta di fronte al dono finale.
Avevo incontrato e conosciuto personalmente alcuni di loro e credo di poter affermare quello che del resto emerge con chiarezza dai loro scritti degli ultimi anni (usciti anche in Italia nel volume {link_prodotto:id=356}): il martirio non lo hanno cercato e nemmeno desiderato; a più riprese, al rinnovarsi di minacce più o meno esplicite, si erano interrogati se restare o partire, e avevano deciso insieme, nella libertà e per amore, di continuare a vivere lì dove la volontà del loro Signore li aveva posti, per non rinnegare con il gesto di un momento un’intera storia di vicinanza a un popolo, a uomini e donne precise che contavano su di loro per avere protezione, aiuto, sostegno e conforto in una delle stagioni più buie della storia algerina. Un martirio non desiderato, dunque, eppure accettato, accolto come un ospite che da tempo si vedeva profilarsi all’orizzonte, come una presenza con cui da tempo ci si era familiarizzati per averla vista all’opera presso amici e persone care: prima di loro, nello spazio di pochi anni, una dozzina di religiosi e religiose avevano pagato con la vita la propria presenza di uomini e donne di preghiera e di solidarietà al cuore della tempesta.
Nel suo testamento, scritto all’indomani di un’incursione armata di un gruppo di «fratelli della montagna», il priore del monastero, fr. Christian si augurava di poter avere, nel momento della morte violenta «quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità e, nello stesso tempo, di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito». Gli eventi, al di là di tutti gli aspetti tuttora oscuri, hanno fatto sì che questo «attimo» di lucidità si dilatasse per quasi due mesi, il tempo intercorso tra il rapimento e la morte. Non sappiamo nulla di certo e preciso circa i luoghi in cui hanno vissuto questo tempo, non sappiamo nemmeno chi fossero davvero i loro rapitori, poi i loro carcerieri e infine i loro assassini; d’altro canto il pudore, il rispetto per il segreto del cuore umano, per l’inviolabile intimità del rapporto di ogni essere umano con il suo Creatore ci vietano di chiederci come i sette monaci hanno vissuto il tempo della loro prigionia. Ma tutto nella loro vita ci consente di affermare che non sono morti diversamente da come sono vissuti: in un incessante cammino di conversione, in un rinnovato dono di sé e della propria vita, in una quotidiana testimonianza che solo la ragione che sostiene la nostra vita consente anche di affrontarne l’esito estremo, la morte. Sì, noi abbiamo forse bisogno di sapere chi perdonare per poterlo fare in verità - e ben venga ogni ulteriore elemento di chiarezza in questa vicenda - ma non dimentichiamo che i sette monaci di Tibhirine hanno saputo chi ha dato loro la morte, e tutta la loro esistenza ci fa ritenere che lo hanno perdonato.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa