Pubblicato su: Jesus - ottobre 2010
di ENZO BIANCHI
Solo se si guarda in faccia la solitudine e la si legge nei volti che assume, si può reagire, assumerla e forse anche redimerla. Solo se si intraprende il cammino dell’habitare secum si può forse viverla da uomini
La solitudine
All’inizio del libro della Genesi, al momento della creazione risuonano le prime parole di Dio dette all’uomo e davanti all’uomo. Innanzitutto Dio ammonisce l’uomo a non varcare il limite della sua condizione di creatura e, subito dopo, osserva: “Non è bene che l’uomo sia solo!” (cf. Gen 2,16-18). E così ecco l’uomo, il terrestre: una creatura limitata, fragile; una creatura che può avere una condizione “non buona”, negativa: la solitudine. Il bene per l’essere umano è la comunicazione, la relazione, la comunione, dunque la comunità, il luogo in cui vivere e sperimentare l’appartenenza reciproca e la bontà-bellezza del vivere insieme cantata dal salmo: “Com’è bello, com’è buono, vivere insieme da fratelli” (Salmo 133).
Dobbiamo confessare che quando pronunciamo o sentiamo la parola “solitudine”, questa ci ferisce, desta una certa paura e a volte richiama l’oscurità, il deserto, l’isolamento, addirittura la prigione. Il libro della Genesi ci dice che Dio ha voluto creare la donna e darla come compagna all’uomo perché la solitudine di questi cessasse, ma in verità la solitudine continua a minacciare sia l’uomo che la donna: la solitudine appare come un’esperienza connaturale all’esistenza umana fino alla morte, momento epifanico della solitudine perché si muore sempre soli, anche quando si ha il dono di essere attorniati da altri.
Guardiamo allora in faccia la solitudine. La conosciamo innanzitutto perché la incontriamo come situazione impostaci dalle vicende della vita: magari l’abbiamo sperimentata per aver perso i genitori quando eravamo ancora bambini, oppure la soffriamo a causa della separazione o, ancora, più semplicemente, perché il disinteresse degli altri verso di noi ci fa sentire soli e a volte abbandonati... Questa solitudine è vissuta oggi da molti anziani e anche da molti malati: è vissuta nella tristezza e in un isolamento che minaccia la voglia di vivere. Quante volte incontro persone che esclamano, senza recriminazioni né astio ma solo nella sofferenza, “Mi sento solo! Sono solo!”.
Ma è una sofferenza che si può sperimentare anche vivendo con altri, anche in comunità e senza che si possa addossarne la colpa a qualcuno: a volte è la stessa missione che uno sente su di sé a imporgli una solitudine, perché ci sono pesi portati nel cuore che non possono essere condivisi, ci sono cammini da percorrere per i quali non si può chiedere ad altri di essere nostri compagni, perché ci sono oscurità e inferni in cui si cade pensando e operando affinché gli altri non li conoscano e ne siano risparmiati. Dobbiamo ammetterlo: se non basta una donna per non sentirsi soli, non bastano nemmeno fratelli e sorelle.
Vi è poi una solitudine nella quale, a causa della nostra sordità e cecità, non cogliamo più Dio vicino a noi anzi, ci sentiamo abbandonati anche da lui, fino a chiederci che senso abbia aver creduto in lui e con lui aver deciso tutta una vita. Solitudine negativa, questa, eppure prezzo da pagare per essere se stessi e sfuggire alla tentazione di non misurarsi con la propria coscienza quando si devono assumere responsabilità, quando occorre prendere decisioni che gli altri non sanno capire. Ci basti pensare alla solitudine di Gesù che, se nella sua fede perfetta poteva pensare: “Io non sono solo, perché il Padre mio è sempre con me” (Gv 16,32), nella realtà della sua vita umana fu abbandonato da tutti (Mc 14,51) e sovente, nonostante chiedesse ai discepoli di stare con lui, dovette constatare una loro incapacità, anche solo per il fatto che erano stanchi e oppressi dal sonno (cf. Mc 14,37)!
È salvabile, la solitudine? Può essere redenta? Può diventare feconda? Può essere, come diceva san Bernardo, “O beata solitudo, o sola beatitudo”?. Una cosa è certa: occorre lottare molto, resistere affinché la solitudine non diventi estraneità verso gli altri. La solitudine-estraneità forse può alleviare la sofferenza, ma innesca una dinamica omicida per chi la infligge e suicida per chi la accoglie e la accarezza. Gli altri diventano estranei, ci si chiude in se stessi, fino a organizzare l’intera esistenza come difesa dagli altri. Simile a questa solitudine-estraneità è la solitudine da vuoto esistenziale, una solitudine conosciuta soprattutto dalle nuove generazioni: c’è un vuoto di soggettività, di idee, di senso, di personalità al punto che la vita è vissuta in superficie. Ecco allora la solitudine dovuta alla mancanza di vita interiore: si preferisce vivere ammassati, incontrando molti e comunicando con nessuno, facendo esperienze senza cuore, senza saperle leggere e gustare, fino a derive autistiche . Regna il “divertissement” pascaliano, lo stordimento che viene dall’agitarsi, dall’immergersi nel vortice del lavoro...
Solo se si guarda in faccia la solitudine e la si legge nei volti che assume, si può reagire, assumerla e forse anche redimerla. Solo se si intraprende il cammino dell’habitare secum si può forse viverla da uomini, accogliendone le sofferenze ma trovandone il senso. Sarà come la trafittura di un raggio di sole, come quella evocata da Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera”.