Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Caro Diogneto - 15

01/03/2010 23:00

ENZO BIANCHI

Riviste 2010,

Caro Diogneto - 15

Jesus

JESUS, Marzo 2010 

 

di Enzo Bianchi


Noi uomini abbiamo bisogno di tempi che portino il segno dell’intensità, del rinnovamento, della conversione perché nel cammino quotidiano veniamo meno, ci distraiamo dalla meta, invecchiamo spiritualmente

È tempo di quaresima, un tempo nel quale il cristiano dovrebbe dedicarsi a “esercizi spirituali”, “esercizi ripetuti con costanza” per acquisire una capacità che non possiede o per riattivare delle “azioni buone” che si sono rarefatte nel tempo. Noi uomini abbiamo infatti bisogno di tempi che portino il segno dell’intensità, del rinnovamento, della conversione perché nel cammino quotidiano veniamo meno, ci distraiamo dalla meta, invecchiamo spiritualmente. 

 

La sapienza della tradizione cristiana consiglia quindi al cristiano in questo tempo quaresimale soprattutto la preghiera, il digiuno e la condivisione. Tre azioni che già nella tradizione ebraica erano considerate le tre colonne per la vita del “giusto” e che non a caso Gesù raccomanda nel discorso della montagna. Si tratta di tre impegni che costano materialmente, ma che sono essenziali per vivere nella libertà, lontano dall’alienazione degli idoli: la preghiera infatti significa privarsi del tempo per donarlo a Dio, il digiuno è privarsi del cibo per spogliarsi personalmente, la condivisione è privarsi di quanto si possiede personalmente per farne parte ai bisognosi.

 

Purtroppo queste tre esigenze sono oggi poco predicate nella chiesa, dunque poco presenti nella vita del cristiano. Anzi, a volte sono perfino derise perché non paiono subito utili, immediatamente efficaci. È significativo che anche la pastorale ordinaria abbia svuotato di significato il digiuno, dandogli l’unico obiettivo della condivisione con i poveri. In verità, digiuno e condivisione hanno ciascuno un loro valore distinto: il digiuno ha come obiettivo la consapevolezza che cibo e vita sono doni di Dio, che noi siamo creature, con bisogni pulsanti che ci abitano e che devono essere vagliati, conosciuti, ordinati in modo che possano diventare desideri e non ci trascinino con la loro prepotenza. Il digiuno è una scuola di libertà, di contraddizione alla filautia, questo amore di se stessi che ci impedisce di conoscere la verità nostra e degli altri.

 

Quanto alla condivisione – chiamata tradizionalmente “elemosina” o “opere di misericordia” – dev’essere un gesto di impoverimento a favore dell’altro: l’amore per l’altro mi deve spingere a condividere con lui ciò che lui non ha e di cui soffre la mancanza. È una questione di giustizia riparativa senza la quale non possiamo essere né una communitas né una realtà con orizzonti condivisi. Di fatto, nonostante gli ammonimenti che vengono dall’insegnamento del papa – penso in particolare all’enciclica Caritas in veritate – questo tema oggi non è più sentito nella realtà quotidiana della chiesa, anche se appare visibile una straordinaria “organizzazione” della carità, mai conosciuta nella storia passata. Ma questa carità è quasi sempre condivisione del superfluo, traslazione che non fa patire una privazione: si manda magari un assegno destinato a dei poveri che non vogliamo accanto a noi, si invia con facilità un euro tramite un sms, presi dall’emozione della calamità... Ma questi gesti sono vissuti quasi come un esorcismo: aiutiamo sì, queste persone, ma senza doverli vedere, senza farci carico di loro nel tempo, senza sentirli parte della nostra vita. Ormai si dona senza incontrare il povero, il bisognoso che è diventato una realtà virtuale perché, come ha detto Zoia, è ormai avvenuta la “morte del prossimo”, non solo la morte di Dio.

 

E la preghiera? Essa è privazione del tempo mio, del tempo in cui faccio ciò che voglio, di cui sono padrone. Quando mi metto a pregare, do, offro del tempo a Dio: meditare, stare davanti a Dio semplicemente, anche senza parlare, è sempre donare preziosi minuti della propria vita, minuti che non riusciremo più a riprenderci. Nella preghiera si tratta di far posto a Dio nella nostra vita, è lasciare che Dio venga in noi per operare e mutare ciò che noi non riusciamo a mutare in noi stessi. Dio lo si incontra come si incontra l’altro: lo si fa entrare, si chiude la porta, lo si ascolta, lo si guarda e in quel lasso di tempo non si permette a nessuno di disturbare. L’incontro resta intessuto di silenzio e di parole, di domande e di attese, di gioie e di trafitture. E se a volte durante la preghiera cadiamo nella distrazione o anche nella noia, la fede ci ricorda con forza che comunque Dio non si distrae e non si annoia di noi. 

 

Ormai anziano, vorrei ricordare agli anziani come me che ora il tempo è diventato più prezioso, perché corre velocissimo ed è sempre più breve, ma proprio per questo pregare diventa più urgente. Ha scritto fr. Luc, il più anziano dei sette monaci assassinati nel 1996 a Tibhirine: “Un vecchio è una realtà di miseria, se il suo cuore non canta!”. L’anzianità è tempo di cantare, dunque di pregare con arte!