Pubblicato su: Famiglia Cristiana, 20 agosto 2006
di Enzo Bianchi
Il Mediterraneo deve il suo nome alla collocazione geografica che lo costituiva come cuore del mondo abitato, “mare tra le terre”, supporto ai traffici e ai commerci di fenici, egizi, greci, cartaginesi, iberi e romani. Mare nostrum, lo avevano chiamato questi ultimi, una volta diventati i dominatori di quelle acque che più che dividere univano terre, culture, religioni... Mare che segnava i confini del mondo conosciuto, con quelle colonne d’Ercole al di là delle quali vi era l’ignoto, mare “abbracciato” dall’impero romano che sembrava estendersi a macchia d’olio proprio a partire dalle sponde bagnate da quelle acque. Sulle sponde orientali di quel mare si sono anche affacciate le tre grandi religioni monoteistiche e da lì sono salpati in tempi e con modalità diverse anche gli annunciatori di una “parola” considerata espressione della volontà di Dio per tutti gli uomini.
Mediterraneo, mare emblematico ancora oggi che ha perso molta della sua importanza strategica e commerciale: emblema contraddittorio di tanti aspetti della nostra società sorta propria da quella “culla di civiltà” che il Mediterraneo è stato. Da un lato il brulicare di turisti vacanzieri lungo le coste dalla Turchia alla Spagna, dal Marocco all’Egitto: gente in vacanza festosa, immersa in un cieco consumismo e sovente in un’ostentazione di ricchezza e potere. D’altro lato, l’approdare su alcune di quelle stesse coste di centinaia esseri umani, vivi o morti, centinaia di poveri “che corrono dove c’è il pane”; centinaia di esuli e profughi in fuga dagli orrori della guerra, della violenza cieca, dell’angoscia delle prigioni, della chiusura di ogni orizzonte di speranza; centinaia di persone che noi definiamo sovente solo con aggettivi, negando loro perfino la dignità del “nome”: centinaia di uomini, donne e bambini che vivono drammi di morte per fame e sete alla ricerca di una terra in cui essere accolti e in cui avere semplicemente una vita degna di questo nome.
E ancora, Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, che ora assiste impotente allo scatenarsi della barbarie, che “culla” sulle sue onde navi da guerra cariche di strumenti di morte, che osserva muto il suo cielo terso solcato da aerei da combattimento e da fumi di incendi. Sulle coste orientali di questo mare si leva ancora una volta la bestia infernale della guerra che non riconosce più civili né bambini: il Libano e i suoi abitanti sono vittime della distruzione e della violenza cieca dei bombardamenti, fiumane di persone sono private di tutto, abbandonate a nutrire odio verso i loro vicini di Israele che a loro volta vivono rintanati nei rifugi per sfuggire alla morte che piove con i missili. Una guerra atroce che inquina il mare ancor più di quanto non faccia l’ “oro nero”, sempre più oro di prezzo e sempre più nero di sangue, una guerra cui nessuno vuole mettere fine prima di averla vinta, ignorando che ogni guerra non ha mai vincitori ma solo sconfitti.
Sì, il Mediterraneo, come ogni altro mare, non ha un’anima, può essere veicolo e ricettacolo di vita come di morte, può assistere a gesti di brutalità inaudita come di ammirevole abnegazione, così come può cullarsi nella nostra colpevole indifferenza. Ma il Mediterraneo, come ogni mare, come ogni spazio “tra le terre”, riceve l’anima che gli diamo noi uomini e donne che ne abitiamo le sponde e ne usiamo le acque: sta a noi decidere quale anima gli conferiamo, sta a noi “sanarne” le onde rendendole acque di pace e di accoglienza, sta a noi fare del Mare nostrum, del “nostro” mare, il mare di tutti, la culla di una civiltà in cui ogni essere umano che viene al mondo è libero di amare e di essere amato, una civiltà in cui la vita è più forte della morte.