9 dicembre 2007
di ENZO BIANCHI
Il cuore di ogni uomo può conoscere questa malattia del ripiegamento
La Stampa, 9 dicembre 2007
“Il mare non si riempie mai, pur ricevendo un gran numero di fiumi; allo stesso modo, la brama dell’avaro non si sazia di ricchezze”, così Evagrio tratteggia la philarghyría, quell’ “amore per il denaro” che è espressione di un rapporto patologico dell’uomo con le cose. Questa passione, che la tradizione ci ha abituato a considerare innanzitutto un vizio privato, ha assunto negli ultimi secoli, almeno in occidente, il volto di uno stile economico-sociale collettivo: oggi possiamo chiederci se l’avarizia non sia ritenuta una pubblica virtù, fonte di una vita segnata dal benessere e incurante del fatto che il 20% dell’umanità consuma ormai l’80% delle risorse disponibili…
L’avarizia è una brama disordinata che si manifesta come bisogno impellente dell’avere, come smania insaziabile di accumulare beni: lo stesso sguardo che si posa sul cibo o sul corpo altrui può essere posato anche sulle cose. Il possesso è avvertito come necessità assoluta e tutto è predisposto per giungere a questo scopo, senza tenere conto di alcun limite, a partire da quello costituito dagli altri. L’avarizia è un vizio che si insinua lentamente nel cuore dell’uomo: si inizia con il trattenere per sé ciò che può essere condiviso con altri; si prosegue con l’accumulare senza mai essere soddisfatti; ciò provoca una crescente inquietudine, la quale a sua volta genera l’ossessione dell’aumento del possesso. La logica che muove i comportamenti dell’avaro è quella mortifera del “tutto e subito”, sempre più devastante e ossessiva; quella dell’avere diviene giorno dopo giorno una vera e propria schiavitù, fonte di una costante preoccupazione per conservare ciò a cui ci si aggrappa come unica ragione di vita e, insieme, aumentare ciò che si è acquisito: si aumenta per conservare e si conserva per aumentare… Davvero è il denaro che possiede chi lo possiede. Così il godimento dell’avaro è la previsione di godere nel futuro, ma poi questo futuro è costantemente rimandato: chi è morsicato da questo vizio è di fatto una persona che vive al futuro anteriore…
Avarizia, cupidigia, attaccamento ai beni e al denaro generano una sorta di identificazione con ciò che si possiede, al punto che perdere qualcosa dei propri averi equivale a perdere qualcosa di se stessi. Chi è preda di questa malattia giunge fino a considerare la dimensione dell’avere come prevalente su quella dell’essere: “sono ciò che ho” è il suo tragico motto. Se non si lotta contro tale ossessione, essa perverte i nostri desideri, mai soddisfatti, sempre più prepotenti e seducenti; questi fantasmi finiscono per possedere il nostro cuore, gli impediscono la pace e la gioia, lo conducono alle soglie della depressione: “al mare non mancheranno mai le onde, né all’avaro l’ira e la tristezza”, sintetizzava Giovanni Climaco già nel VI secolo.
Oggi questa voracità di denaro e di beni seduci tanti uomini, al punto che in occidente è avvertita come una malattia profonda della società stessa perché siamo diventati preda di un’ideologia che vuole assicurarci, garantirci il futuro: regna una paura del domani, che chiede di accumulare beni e denaro per far fronte alle incertezze, alle possibili malattie, all’eventuale solitudine, alla debolezza che abbisogna di aiuto altrui. L’insicurezza del domani appare compensata dai beni posseduti e così si scatena una bulimia dell’avere. Ancora Evagrio dipinge con sorprendente attualità le ansie connesse all’avarizia: “L’avarizia fa intravedere una vecchiaia lunga, la debolezza delle braccia nel compiere lavori, la possibilità della fame e di future malattie, le sofferenze dovute alla povertà, e fa intravedere quanto sarà avvilente ricevere dagli altri ciò che dovrà servire alle proprie necessità”.
A ben vedere, l’avarizia, oltre a essere un insulto fatto ai poveri che non possiedono nulla, è anche una violenza fatta alla terra stessa, che in nome di questa brama del “mai abbastanza” è sfruttata e violentata… L’aveva già compreso Alano di Lilla, un monaco cistercense medioevale, quando affermava: “Uomo, ascolta che cosa dicono contro di te gli elementi della natura, ma soprattutto la terra che è tua madre: ‘Perché offendi me, tua madre? Perché fai violenza a me che ti ho partorito dalle mie viscere? Perché mi violenti con l’aratro, per farmi rendere il centuplo? Non ti bastano le cose che ti do, senza che tu le estragga con la violenza?’ ”. Parole che sentiamo contemporanee nei nostri tempi di globalizzazione, di impero del dio mercato, di sfruttamento di una terra sempre più esausta…
Il cuore di ogni uomo può infatti conoscere questa malattia del ripiegamento, della fissazione sull’avere che impedisce la comunicazione, lo scambio, la capacità di donare e di ricevere. Chi è posseduto dall’avarizia pone nei beni il suo cuore e così lo sottrae allo spazio vero dell’amore: l’incontro e la comunione con i fratelli e le sorelle in umanità. Questo vizio mina allora i rapporti con gli altri: l’avaro si isola, non solo perché non condivide, ma perché accumula nella volontà di non dipendere da nessuno. E così si finisce per mettere la propria fiducia nel possedere, nell’accumulare. Non è significativo che nel nostro linguaggio vi siano espressioni come “credere negli investimenti”, “avere fiducia nel mercato”? Per il cristiano, aver “fede” nel denaro, nei beni, nella “roba” è idolatria perché significa sostituire la fede nel Signore con una fede nella ricchezza. Ma anche a livello umano l’avarizia è comunque alienazione, è una barbarie asociale che ricerca un domani egoistico e garantito, in cui gli altri sono esclusi di fatto dall’orizzonte. L’avaro è condannato a faticare per accumulare, ad aver paura nel conservare, a soffrire nel perdere: ecco la sua infelicità.
L’antidoto a questa patologia nei rapporti con le cose è in primo luogo la conversione e la disciplina dei desideri, ossia l’esercizio per giungere a recidere alle radici la brama di possesso smisurato e a ristabilire il primato dell’essere sull’avere: l’avarizia non è infatti una questione di quantità di beni posseduti, ma di disposizione del cuore. Il frutto concreto di tale disposizione interiore sarà la capacità di godere dei beni senza ossessioni, di possederli senza accumularli, di scegliere come poterne usufruire assieme agli altri.. Scegliere significa proprio rinunciare liberamente a qualcosa in funzione di un bene più grande o di un male minore. Ora, se ci esercitassimo a condividere ciò che abbiamo, a dare e a ricevere, conosceremmo sempre di più la gioia che nasce dal vivere la “communitas” e, una volta gustata questa gioia, non potremmo più farne a meno.
Enzo Bianchi
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ENZO BIANCHI
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