28 ottobre 2007
di Enzo Bianchi
La memoria dei nostri morti è decisiva per vivere il nostro presente e sperare il nostro futuro, ed è sorgente di sapienza
Avvenire, 28 ottobre 2007
Il culto dei morti, la memoria rituale di quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita è uno dei dati antropologici più antichi e universali. Nella nostra cultura occidentale europea sono stati i celti a collocare in questa stagione la memoria dei morti: culto che la chiesa ha “cristianizzato” e che è divenuto ben presto una delle ricorrenze più vissute e partecipate. Ancora oggi, nelle campagne come nelle città, anche in una cultura dominante che pur tende a rimuovere la morte dal proprio orizzonte, questa celebrazione rimane solidamente presente. E’ vero che la tendenza della nostra società a sfruttare ogni festività religiosa per scopi mercantili ha reintrodotto elementi pagani infestandoci con maschere, spiritelli e zucche varie, ma la dimensione cristiana di questa ricorrenza non è ancora scomparsa dal cuore e dalla mente dei più.
Ciò è dovuto al fatto che la chiesa, nell’accogliere questo tentativo di risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni essere umano, ha saputo proiettarla nella luce della fede pasquale che canta la risurrezione di Gesù Cristo da morte e l’ha fatta precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con sé i morti, li prendono per mano per ricordare a noi tutti che non ci si salva da soli e che tutti viviamo avvolti in un’unica grande comunione d’amore. Così, è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli, come a incontrarli e a farsi ascoltare da loro attraverso pochi gesti, una preghiera, un mazzo di fiori, l’accensione di un lume: sono semplici manifestazioni di un amore che la morte non può sopraffare, un affetto che in questa occasione è capace di assumere anche il male che ha attraversato la vita dei propri cari e di avvolgerlo in una grande compassione abitata dal perdono dato e ricevuto.
Sì, porre i propri morti e se stessi davanti a Dio nella preghiera è un esercizio di comunione, un rinnovamento dell’amore: certo, con parole, linguaggi, gesti diversi, ma vissuti negli affetti e nel desiderio di dare e ricevere vita. La memoria dei nostri morti è allora decisiva per vivere il nostro presente e sperare il nostro futuro, ed è sorgente di sapienza per coglierci nella catena di generazioni che abitano questa terra, ciascuna delle quali è tenuta a essere solidale e responsabile nei confronti della successiva. Ciascuno di noi, poi, sa che molto di quanto lo abita in profondità e gli fornisce un’identità deriva proprio da chi lo ha generato, da quanti lo hanno amato e sono stati da lui amati, dalle persone con cui ha vissuto e dalle quali ha ricevuto il senso stesso della vita.
Sì, come recita Qohelet, tutti gli uomini portano nel cuore il senso dell’eternità, anche quelli che non sanno da dove vengono e dove vanno, anche quelli che non sanno leggere l’azione di un Dio Creatore. La morte resta un enigma perché stronca le nostre relazioni, i nostri amori, le nostre comuni speranze, ma questo enigma chiede di essere assunto affinché lo viviamo nella verità del ricordo e nella consapevolezza che per noi poveri esseri mortali solo l’amore è più forte della morte, più tenace degli inferi. E per i credenti l’enigma diventa mistero, cioè rivelazione del destino degli uomini attraverso la fede in Gesù Cristo risorto da morte e vivente per sempre.
Non dimenticherò mai che la mia generazione fu ancora cristianamente educata in una memoria intensa e puntuale della propria morte e nell’esercizio di amore verso i morti: allora la visita al cimitero era d’obbligo alla domenica dopo i vespri, e ritornando a casa si sgranava la corona del rosario ripetendo: “Gesù Cristo è la vita eterna”. Esercizi di fede nella vita più forte della morte!
Enzo Bianchi
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