23 settembre 2007
di Enzo Bianchi
Nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e da ogni uomo mi differenzia e mi personalizza, è incisa la mia unicità e irripetibilità e anche la mia chiamata
Avvenire, 23 settembre 2007
“Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni”. Parole che Marguerite Yourcenar mette in bocca all’imperatore Adriano e che noi sentiamo particolarmente vere e attuali nel nostro mondo occidentale, dove il “principio piacere” sembra guidare la visione del corpo che ci offrono i mezzi di comunicazione. Lì ogni giorno siamo confrontati a una scissione dal dolore, a un oblio della sofferenza, a una rimozione della bruttezza, a una negazione del corpo deformato dalla malattia e, specularmente, siamo come istigati a un’esaltazione del corpo prestante, a un’idolatria della giovinezza, a un’esibizione di ciò che è superficiale.
Eppure, quelle che Adriano chiama le occasioni per “tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo” davvero non mancano oggi, in una società che alcuni hanno definito dell’ “incertezza”. L’essere umano pare in balia di una mancanza di stabilità interiore che contamina ogni aspetto della sua vita: precarietà del lavoro, fragilità delle relazioni, incertezza sul futuro, sconvolgimento dell’ecosistema... Non a caso alcuni sociologi hanno colto come emergente nelle nuove generazioni una “incertezza del corpo”, qualcosa di ben più profondo e grave di un’adolescenziale indeterminatezza sessuale: un vivere senza limiti che finisce per tradursi in una vita depauperata di identità. Da qui l’esigenza di riprendere in mano con “virtù eroica” il rapporto con il proprio e l’altrui corpo e di farlo non attraverso un’immagine idealizzata del corpo stesso bensì a partire proprio dall’aspetto meno piacevole, quello della sofferenza. Rispettare, ridare dignità all’essere umano che abita un corpo ritenuto “indegno” dei parametri oggi vincenti è operazione di controcultura che mira a salvare l’essenza stessa della dignità umana. Anche l’uomo che ha perso la propria forma e ha assunto l’indegnità, richiede che si riconosca in lui la dignità umana: sì, è forse soprattutto questo “uomo senza qualità” a conservare una dignità che invoca rispetto. Ciascuno ha infatti diritto alla salvaguardia della propria dignità non per ragioni religiose né per obbligo sociale vincolante, ma semplicemente perché ridotto a nulla: l’essere umano sfigurato genera la dignità in chi gli sta di fronte e accetta di incontrarlo, di assumere il peso di un’umanità avvilita, sprovvista dei tratti caratteristici di quella che siamo soliti considerare “dignità”.
Non dimentichiamo che il rispetto della dignità umana è fondato sulla nostra comune indegnità: l’uomo afferma la dignità propria e dell’intero genere umano quando onora nell’altro l’umanità degradata, incapace di esibire i tratti propri dell’essere umano. Non è un caso che lo slancio decisivo per giungere alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sia venuto al consesso umano dall’aver toccato l’abisso della disumanizzazione e della degradazione durante la seconda guerra mondiale e l’inenarrabile malvagità della shoah. La dignità umana non è infatti un attributo peculiare della persona nella sua singolarità: è una relazione e, come tale, si manifesta nel gesto con cui ci rapportiamo all’altro per considerarlo nostro simile, ugualmente uomo, anche se la forma che questi è venuto ad assumere denuncia un abbrutimento, una non-umanità, un aspetto “disumano”. Siamo chiamati a rispettare la persona umana offesa dall’obnubilamento dell’Alzheimer, assimilata al letto o alla carrozzella su cui giace, ferita nelle facoltà fisiche o intellettuali, senza mai identificarla con la sua infermità che diviene anche “in-formità”: l’essere umano nella sua indegnità richiede rispetto nonostante la sua miseria fisica, psicologica, morale anzi, proprio in essa va riaffermata la perdurante dignità umana.
Questo perché il corpo permane, nonostante tutto, il “luogo” della nostra inscrizione nel “senso” della vita. Nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e da ogni uomo mi differenzia e mi personalizza, è incisa la mia unicità e irripetibilità e anche la mia chiamata a esistere con e grazie agli altri. Il corpo è il memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità. Non scelto, il corpo è dono oppure onere, fardello. Di certo esso diviene un compito, un mandato da realizzare. E questa è l’obbedienza originaria dell’uomo inscritta nella nascita.
Queste considerazioni umane elementari si declinano in ambito cristiano alla luce della creazione e dell’idea che l’uomo è imago Dei. Creato a immagine di Dio, il cristiano confessa che questa immagine trova il suo volto nel volto di Gesù Cristo. Le affermazioni bibliche circa la creazione dell’uomo a immagine di Dio significano la creazione del corpo come entità relazionale, come capax Dei e capace di relazione con gli altri, come entità spirituale per eccellenza. Non a caso per la Bibbia il vero soggetto della preghiera è il corpo. Non tanto nel senso estrinseco per cui l’orante pone il proprio corpo in determinate posture (si inginocchia, si prostra, tende in alto le mani, leva gli occhi al cielo, batte le mani, danza, ecc.) e neppure si tratta di un problema di tecnica della preghiera (la preghiera è l’evento meno tecnico e meno riducibile alla tecnica). In realtà il problema è più profondo. Se la preghiera è vita vissuta davanti a Dio, dunque vita, questa non ha altro luogo che il corpo. Ecco allora che il grido e le lacrime, l’urlo e l’invettiva, la protesta e l’abbandono confidente, la supplica e l’invocazione, il ringraziamento e la lode, il riso e l’esultanza, il dolore e il piacere, il silenzio e la riflessione, cioè tutte le multiformi espressioni della preghiera sono linguaggio del corpo. Così si esprimeva uno dei più lucidi biblisti dei nostri giorni, p. Paul Beauchamp: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo... L’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo: la stessa meditazione si esteriorizza corporalmente prendendo il nome di “mormorio”, “sussurro”. Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. E’ il corpo stesso che prega: “Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore?” (Sal 35,10)». Nella sua relazione con Dio l’orante pone in primo piano il proprio corpo; per parlare con Dio egli deve dire il proprio corpo: mani e braccia, piedi e gambe, lingua e labbra, bocca e gola, viso e capo, occhio e orecchi, cuore e reni …
Questa unità profonda dell’essere umano ci mostra allora come il corpo non è un fardello fastidioso, non è la parte materiale, corruttibile dell’uomo, non è quello che con angoscia ciascuno di noi deve presto o tardi lasciare, ma è la responsabilità che ci personalizza. I rabbini così commentavano l’espressione “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, che il libro della Genesi mette in bocca a Dio: Dio dice “facciamo”, intendendo come soggetto di questo plurale Dio e l’uomo insieme: entrambi impegnati a fare l’uomo a immagine di Dio. Sì, ogni giorno si rinnova per noi il compito di realizzare il nostro corpo: un compito arduo che richiede a ciascuno di fare appello alle “virtù eroiche dell’uomo” per alleviare “la lunga serie dei mali veri e propri” e far emergere la grande dignità che abita nascosta in ogni corpo umano.
Enzo Bianchi
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