Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

La “bagna cauda” un opera d'arte

09/09/2007 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2007,

La “bagna cauda” un opera d'arte

La Stampa

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9 settembre 2007

Articolo di ENZO BIANCHI

La bagna cauda era un’autentica celebrazione culinaria del territorio, dei suoi prodotti, del desiderio condiviso

 

La Stampa , 9 settembre 2007

 

Con la vendemmia andiamo ormai verso l’autunno: è la stagione in cui tra le colline del Monferrato accese di colori e spoglie di grappoli si attarda un’insistente nebbiolina e dalla vigne si anticipa il rientro a casa, perché “ormai fa fresco”. Che fosse per scaldarsi un po’ alla sera, o per arginare la malinconia che si impadronisce delle giornate più corte, o magari per riabituarsi a starsene in casa in vista della stagione fredda, sta di fatto che era questa la stagione in cui, con amicizia rinnovata, noi giovani ci ritrovavamo in compagnia a mangiare un piatto tradizionale della tradizione contadina: la “bagna cauda”. Per noi era anche il modo più semplice per divertirci insieme: la pista da ballo c’era solo una volta all’anno – si montava per la festa del paese e si smontava subito dopo – il cinema una volta alla settimana, giocare a carte al bar sembrava affare da anziani, la televisione era sconosciuta... Così, per stare insieme in allegria, “contarcela” ridendo e scherzando, in autunno e inverno niente di meglio di una buona bagna cauda: una cena che era uno sbocco naturale delle nostre relazioni, una serata in cui chi a turno invitava gli amici a casa propria dava il meglio di sé, assieme al miglior vino che teneva in cantina.

 

Ma, molto di più di una tavolata tra amici, la bagna cauda era un’autentica celebrazione culinaria del territorio, dei suoi prodotti, del desiderio condiviso, della convivialità: era, oserei dire, un’opera d’arte. In alcune case, sotto la tettoia della corte, c’era addirittura una tavola rotonda di pietra, con un buco al centro dove poter mettere la brace e depositarvi sopra la pentola di terracotta con quell’intingolo caldo, che non è propriamente né sugo né salsa, in cui tutti i commensali intingevano le verdure.

 

Un’opera d’arte culinaria che, per essere gustata veramente, va conosciuta nei suoi semplicissimi ma straordinari ingredienti. Le acciughe, innanzitutto. Certo, solo Nico Orengo, riesce a narrare degnamente Il salto dell’acciuga, quel magico viaggio dalla riviera della Liguria alle colline del Monferrato... Lì questi nastri argentati arrivavano con la bicicletta dell’acciugaio: due cestini di vimini collocati uno sulla ruota davanti e l’altro su quella posteriore e, nei cestini, i secchielli in legno coperti da una pietra nera di lavagna, anch’essa frutto del mare. Pescate nel mar Ligure, le migliori erano considerate quelle del Golfo del Tigullio, di Monterosso in particolare. Con il suo carico prezioso stipato sotto sale, al grido “Donne! Acciughe belleeee...” l’acciugaio attraversava il paese e le donne uscivano di casa, lo salutavano e si avvicinavano per comperare qualche etto di acciughe. A parte la gente di mare, credo che solo in Monferrato e nelle Langhe vi sia chi sappia davvero apprezzare e valorizzare le acciughe: nelle case non mancavano mai e con il loro “bagnetto” (la salsa per impreziosirle) verde o rosso, oppure sottolio o ancora con un po’ di burro, sovente erano l’unica portata di una cena: cibo povero ma capace di allietare una scarsità altrimenti ben triste. Quelle acciughe che i liguri chiamano “u pan du mar”, il pane del mare, a volte erano belle grosse, e allora si diceva “sono carne”, altre volte erano piccole e magre e giustificavano l’attributo di “pesce dei poveri”, tipico di un pasto di miseria: “siamo ridotti a mangiare pane e acciughe”.

 

L’altro ingrediente per la bagna cauda è l’aglio, che arrivava nelle cucine senza dover “fare il salto” degli Appennini: lo coltivavamo in Monferrato e ne eravamo molto fieri. L’aglio era innanzitutto un medicinale: fin da bambini imparavamo a conoscerlo perché le mamme lo mettevano in un sacchetto legato alla camicia da notte contro “i vermi”; gli adulti lo apprezzavano perché quando c’era poco o nulla da mangiare in casa, bastava una fetta di pane e lo straordinario sfregolio di qualche spicchio d’aglio trasformava questa abbinata nella “soma”, una leccornia che non va assolutamente confusa con le odierne bruschette; i vecchi, con la loro autorevolezza, sanzionavano che l’aglio è medicina contro tutte le malattie, un “disinfettante” - gli antibiotici non erano ancora entrati nelle case, né nel vocabolario – capace di guarire raffreddori e influenze. Sì, è vero che l’aglio poteva creare quelli che oggi chiameremmo “disagi sociali” a causa dell’odore che emanava chi lo aveva ingerito e digerito: ma allora non si prestava molta attenzione a questi particolari... L’aglio comunque era l’elemento più presente in cucina: sapientemente raccolto in trecce che erano autentici capolavori di tessitura, veniva appeso presso il camino e da lì se ne staccava una testa, la si tritava o sminuzzava e ogni piatto acquistava profumo e sapore di cibo prelibato.

 

E, infine, l’olio. Anche questo veniva dalla Liguria ed era scambiato con il nostro vino: cinque litri di vino per un litro d’olio. Era un bene molto prezioso: si stava attentissimi a centellinarlo, senza mai abbondare. Come avveniva un tempo per molte cose, per affermarne il valore si diceva che versarlo a terra portava disgrazia, e noi bambini imparavamo subito a non sprecare olio e sale: il non poterli produrre in loco – come invece il vino e il burro - e la conseguente difficoltà di approvvigionamento le rendevano merci stimate ben al di là del loro effettivo valore venale: allora, di qualcosa che era raro, difficile da acquistare, si diceva ancora che “non aveva prezzo”. A casa mia, nella stanza in cui si mangiava, che era anche quella in cui si accoglievano gli ospiti, c’era sempre sul tavolo una grossa pagnotta di pane, una bottiglia d’olio, un fiasco di vino e il sale: una nappa li ricopriva, a significare la riverenza quasi sacrale verso quegli alimenti.

 

Se questi sono gli elementi della bagna cauda, la preparazione tende a esaltarne le qualità: si trita l’aglio con la mezzaluna, intanto si fanno sciogliere lentamente le acciughe nell’olio caldo, poi si aggiunge l’aglio e lo si fa cuocere. Ma il fuoco deve sempre restare basso, altrimenti l’aglio si bruciacchia. Chi fa la bagna cauda non la cuoce, ma la forgia con il fuoco e il suo cucchiaio di legno: da sapiente alchimista estre piacere per gli altri da elementi così semplici. Guarda, contempla, odora, “sente” attraverso il cucchiaio di legno, raramente assaggia fino a che giunge il momento decisivo: l’intingolo di un bel colore nocciola arriva in tavola, il “dianèt” – pentola di terracotta che evoca Diana, la dea della caccia – è posta sulla brace e finalmente tutti i commensali possono stendere la mano per intingere in quella salsa così semplice e preziosa. E se la reazione dei commensali è un sincero, elementare “buona, questa bagna cauda”, allora il miracolo si è ripetuto.

 

La verdura principe da intingere restano i peperoni, che da fine agosto sono un altro orgoglio del basso Piemonte, ma poi anche le foglie delle prime verze, i “tapinabur”, squisite patate dolci, e per chi li aveva, i preziosissimi cardi gobbi di Nizza. Un pasto preso da un unico piatto comune a tutti, segno della condivisione e della festa: si stava gli uni di fronte agli altri, parlando in amicizia e ritmando i bocconi con qualche sorso di buon vino forte...

 

Quando ancora oggi mangio la bagna cauda, non posso fare a meno di pensare al pesce pescato in mare, quelle lucenti argentee acciughe prese nelle reti e portate a terra, dove le donne le preparano, mozzando loro la testa e svuotando le interiora, per poi disporle ordinatamente sotto sale, con cura e delicatezza. Poi la lenta maturazione nelle botticelle o nei vasi di vetro, con il sale che un tempo veniva dalla Sardegna, rossastro, impuro, ma così ricco di sapori... Penso all’olio dei pendii liguri: le olive che allora erano raccolte a mano e molate per estrarne un olio verde straordinario per il profumo, torbido di spessore, delicato e intenso nel gusto. Penso all’aglio, seminato prima dell’inverno nei rari spazi piani in mezzo alle colline dove regnano le vigne, silenzioso nel suo crescere anche sotto la neve, ma poi pronto per essere raccolto e intrecciato da mani sapienti a giugno e luglio. E’ tutto uno scambio di terre, di genti, di culture che concorre ad allestire una tavola offerta ad amici e compagni: alimenti poveri, diremmo oggi, ma ricchi di umanità e capaci di creare una vera e propria celebrazione.

La convivialità si prolungava nella sera, bevendo e raccontando: sì, allora prevaleva il racconto.

 

Non si ragionava di politica, né si disquisiva della vita sociale – per questi argomenti c’erano il bar e il crocchio davanti alla chiesa prima della messa “grande” della domenica). Si raccontava, semplicemente, perché ognuno aveva qualcosa da raccontare, nessuna vicenda della vita era insignificante per gli altri. C’era anche chi sapeva inventare e creare vicende impossibili, chi aveva la capacità di trasfigurare la realtà o di caricaturarla, chi sapeva tratteggiare con una sola parola pregi e difetti di ciascuno, chi condiva le sue parole con una sapienza che pareva d’altri tempi e d’altri luoghi... Si raccontava e, nel raccontare, le nostre vite trovavano uno spazio più largo, un respiro più ampio, meno asfittico: davvero ci si divertiva insieme, senza artifizi né strumenti, semplicemente stando insieme.

 

D’inverno poi, in quelle notti così lunghe, senza televisione, con l’unico bar lontano dalle cascine, senza telefoni, non era raro che le serate iniziate con una bagna cauda da un amico, finissero anche dopo mezzanotte in un’altra casa. “Vado a v’gè” – dicevamo – “vado a vegliare” dall’uno o dall’altro: una sera qui e l’altra là, in casa di amici, attorno al camino o addirittura nella stalla, là dove le mucche assicuravano un tepore familiare... Gli uomini parlavano tra loro, mentre le donne se ne stavano quasi sempre zitte – forse perché avevano già parlato abbastanza durante il giorno... – e lavoravano a maglia, oppure tutti insieme si sgranava il granturco. Nessuna poesia, non era una vita più bella o migliore della nostra oggi, anzi: quanta violenza si celava in quell’ordine bucolico e contadino, quanta grettezza, anche. Eppure la bagna cauda, il suo rito oggi mi manca: certo, a volte la preparo ancora e la mangio con qualche amico, ma è un piatto che non si può gustare davvero fuori dalla terra del Monferrato, fuori da quel mondo che l’ha pensata e creata. Può essere un tentativo di dare gioia e di stupire gli altri, ma non ritrova più la sua dimensione di celebrazione della terra, del lavoro e della sapienza delle generazioni che ci hanno preceduto.

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Stampa