Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Se il nemico dei miei nemici è il mio Dio

06/05/2007 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2007,

Se il nemico dei miei nemici è il mio Dio

La Stampa

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6 maggio 2007
di ENZO BIANCHI

C’è una differenza cristiana che fa sì che la relazione tra religione e politica non sia mai risolta una volta per tutte, né si assesti

 

La Stampa, 6 maggio 2007

 

René Remond, il grande pensatore dell’Académie française recentemente scomparso, cattolico convinto che negli ultimi tempi aveva denunciato il sorgere di un nuovo anticristianesimo, aveva anche profetizzato l’avvento di un uso politico della religione da parte di forze politiche ad essa estranee; anzi, aveva individuato la difesa della religione e dei suoi valori come opportunità feconda per guadagnare consensi in una stagione segnata da frammentarietà culturale ed etica e da tentazioni identitarie. Non possiamo che prendere atto che così è realmente avvenuto: ormai, e di questo soprattutto i cristiani dovrebbe esserne convinti, ogni fatto e ogni parola che appartengono alla religione e alla vita ecclesiale sono soggetti a un uso politico, fino a poco tempo fa da parte di chi in realtà non è segnato dalla fede, ma ultimamente anche da parte dei cristiani stessi. Per un efficace uso politico della fede occorre difenderla, indicarla come un labaro innalzato a emblema identitario e di raccolta delle forze in vista dello scontro con un nemico che viene agevolmente indicato nello schieramento politico opposto.

 

Da tempo ripeto che questi sono giorni cattivi, soprattutto per i cristiani credenti in Gesù Cristo e nella forza del vangelo che hanno alle spalle una vita segnata dalla ricerca di dialogo, di confronto, di apertura: una via tracciata e indicata dalla chiesa stessa e originata anche dall’evento del Vaticano II che, in quanto concilio ecumenico presieduto dal papa, rimane l’istanza più autorevole della chiesa cattolica. La mia generazione di cattolici ha imparato, con fatica e con uno sforzo di obbedienza leale, che il dialogo con i non cristiani era urgente e apparteneva allo stile evangelico dello stare nel mondo e nella compagnia degli uomini; ha imparato che occorreva vivere con intelligenza e responsabilità il “dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”, accogliendo una giusta laicità che garantisse a tutti la libertà religiosa e permettesse alle religioni di esprimersi pubblicamente; ha imparato che ai cristiani era chiesto di assumere la misericordia, l’accoglienza, la compassione come abiti evangelici. Ma adesso anche queste acquisizioni, assunte a caro prezzo, appaiono non solo incerte ma minacciate da opzioni che le contraddicono. Molte parole sane del vangelo sono ritenute parole “infami” (abbiamo sentito questo giudizio sulla bocca di chi ha ricevuto il compito di voce ecclesiale!); chi dialoga con avversari (non “nemici!”) è ritenuto un traditore o un buonista arresosi agli altri; chi denuncia il rischio di una chiesa che viva di politica e di strategia appare come un nemico della chiesa stessa.

 

Tutto questo lascia ormai intravedere la fine del dialogo tra cattolici e laici: si assiste a una polemica continua, sempre più chiassosa e barbara che fa sentire la chiesa assediata e che, di converso, dà ai non credenti l’impressione di vedere minacciata la libertà e la laicità. Che tristezza essere giunti a vedere un vescovo costretto nella sua chiesa a celebrare la liturgia eucaristica circondato da guardie del corpo, che tristezza dover subire l’irrisione della fede cristiana da parte di scritti che riscuotono successo grazie a titoli che proclamano “non possiamo essere cristiani e soprattutto cattolici”, che tristezza sentire usare parole come persecuzione – tragica realtà per fratelli e sorelle nella fede di troppi luoghi nel nostro pianeta – per definire atteggiamenti insulsi che manifestano di per sé la pochezza di chi li assume. Sì, stiamo raccogliendo l’esito di anni di reciproco non ascolto, di demonizzazione dell’avversario, di polemiche e incomprensioni, e tutto questo in una agorà in cui non si fronteggiano solo credenti e non credenti, ma in cui altri attori cercano di fare uso politico della fede cristiana. Il “religioso” abita ormai lo spazio pubblico con derive settarie, con posizioni fondamentaliste e intolleranti, con logiche lobbistiche: così, nelle grandi sfide etiche che premono sulla società civile, i credenti faticano a raccontarsi, ad affermare le proprie ragioni, a motivare i loro principi senza destare diffidenza o addirittura avversione. E allora, nella stagione del disincanto della politica – analogo al disincanto della religione sperimentato una ventina d’anni fa – la religione “risorge”, soprattutto come risorsa identitaria ed etica che la rende più facile preda di forze politiche che vogliono sfruttarla a proprio vantaggio.

 

Così si smarrisce la comprensione della “differenza cristiana”, della “anormalità cristiana in politica”, come la chiama l’intellettuale gesuita Paul Valadier. Sì, normalmente nella storia religione e politica vanno di pari passo, si appoggiano l’una all’altra, ma il messaggio del vangelo non accetta questo assetto di complicità o di scontro frontale. Il dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio significa anche annuncio di un regno di Dio che non è un regno mondano, un regno in cui il potere non si conquista e non si esercita al modo dei dominatori di questo mondo. Gesù ha voluto accanto alla polis e inserita in essa una comunità in cui sono principi irrinunciabili il perdono, l’amore dei nemici, il servizio agli altri. C’è una differenza cristiana che fa sì che la relazione tra religione e politica non sia mai risolta una volta per tutte, né si assesti in una staticità immutabile, anche perché la frontiera tra spirituale e temporale non è mai netta: esisterà sempre una tensione tra il vissuto concreto di una spiritualità e l’ideale che anima ogni opzione temporale.

 

Da qui deriva il dovere della chiesa di farsi ascoltare, trovando modi e tempi per un intervento autorevole ma non autoritario, non calato dall’alto ma comprensibile per il suo linguaggio antropologico più che dogmatico e teologico: un linguaggio non banale né apodittico, ma passibile di essere accolto anche da chi non condivide la fede che lo genera. Il portavoce della Santa Sede, padre Lombardi, nelle polemiche che in questi giorni hanno assunto toni di scontro e di conflitto, ha pronunciato parole di grande sapienza cristiana, animate da un’unica intenzione, quella di garantire le condizioni per un dialogo rispettoso anche tra fazioni avversarie. Ci auguriamo che queste parole pacate sappiano anche fermare quell’uso politico della religione che pare diventato lo sport nazionale.

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Stampa