25 marzo 2007
di Enzo Bianchi
Luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Non riuscirei a vivere senza questo orto
La Stampa, 25 marzo 2007
“Ricordati che per fare un orto ci vuole acqua, letame, ma soprattutto una ciuenda!”. Parole di sapienza che mio padre mi ripeteva ogni volta che gli chiedevo di regalarmi un orto. La mia famiglia non possedeva terra, ma dopo tanta insistenza mio padre affittò per me – avevo solo 14 anni! - un pezzo di terra perché potessi farmi l’orto. E imparai subito la necessità della ciuenda, del recinto di canne e poi di fil di ferro, per delimitare l’orto, ma anche per proteggerlo dagli animali e ... dagli uomini.
L’orto è una grande metafora della vita spirituale, l’hortus conclusus, difeso appunto da una recinzione: luogo di lavoro e di delizia, luogo di semina e di raccolto, luogo di attesa e di soddisfazione. Ho cominciato a tenere l’orto da ragazzo e da allora non sono mai riuscito a vivere senza accudire un orto: arrivato a Bose per iniziare una vita monastica, ho subito avviato un orto – che ora altri conducono, ricavandone frutti meravigliosi in ogni stagione – e anche oggi continuo a tenere un piccolo orto vicino alla mia cella, interamente dedicato alle erbe aromatiche: prezzemolo, basilico, boraggine, erba cipollina, menta, timo, maggiorana, aglio... Non riuscirei a vivere senza questo orto che non solo dà gusto ai cibi, ma mi insaporisce l’anima. Del resto, continuo ad andare sovente nell’orto lavorato dai fratelli e dalle sorelle, perché non trovo soddisfazione più grande del mangiare i pomodori raccolti dalla pianta, dell’accarezzare i peperoni carnosi, il “cuneo” e il “quadrato d’Asti”, dello strappare uno spicchio d’aglio per mangiarmi, fattasi notte, nella mia cella, una “soma” di pane, olio buono, sale e aglio... Mi piace pensare che di là, nel paradiso che non a caso ha il nome di “giardino”, ci sono tanti orti che mi aspettano.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa