20 novembre 2006
di Enazo Bianchi
Per un cristiano della mia generazione – battezzato e cresciuto nella chiesa cattolica preconciliare, educato nella fede da persone semplici ma consapevoli di cosa significasse credere in Gesù Cristo, con un padre non credente – la giovinezza e l’età adulta hanno riservato non pochi cambiamenti nel campo del vissuto di fede ed ecclesiale. Innanzitutto il concilio e la primavera di speranza riaccesa nonostante le visioni cupe dei “profeti di sventura” che vedevano solo negatività nel mondo contemporaneo: la riscoperta della parola di Dio contenuta nelle Scritture sante, la comprensibilità ritrovata della fede, l’attenzione ai “segni dei tempi”, l’apertura al dialogo e al confronto con gli altri cristiani, la medicina della misericordia, la sollecitudine e la cura verso l’umanità e in particolare verso i più poveri e i più sofferenti. Poi, quasi senza soluzione di continuità e con ondate a volte contraddittorie, la progressiva secolarizzazione, l’affermazione della “morte di Dio”, il fascino della “svolta a oriente” con le sue ambiguità di fuga... E ancora, in tempi più recenti, come movimento di un pendolo: il “ritorno di Dio” o, meglio, della “religione”, la rinascita di un certo clericalismo con il conseguente rinvigorirsi di anticlericalismi vecchi e nuovi, l’affacciarsi dell’ipotesi della “religione civile” contrapposta o complementare a quella “fai da te”. Sì, sono cambiate tante forme e modalità del credere, ma non è cambiato Colui nel quale i cristiani credono da due millenni.
Oggi, nell’occidente che un tempo soleva definirsi cristiano, ci troviamo per molti aspetti in una stagione paradossale: abbiamo noncredenti dal fiero passato anticlericale che dettano catechismi e usano radici cristiane come armi contundenti; credenti che – a sentire sondaggisti e non credenti – non saprebbero più “in cosa crede chi crede”; romanzieri di successo che riescono a far considerare come “storiche” le più improbabili ipotesi sulla vita di Gesù e sulle origini del cristianesimo; e, d’altro canto, studiosi che vorrebbero smontare pezzo dopo pezzo i pochi dati storici certi su un rabbi di Nazaret, messo a morte attorno all’anno 30 della nostra era, e sui suoi discepoli che l’hanno proclamato “Signore”, risorto tre giorni dopo; paladini della chiesa che usano strumenti mondani per difenderla e annacquano la “differenza” cristiana in un modus vivendi conforme alla mentalità dominante; laici che irridono alla chiesa e non riescono a passare un giorno senza nominarla ed enfatizzarne la presenza e l’azione; capi di stato che iniziano con la preghiera riunioni di gabinetto in cui autorizzano la violazione dei più elementari diritti umani di singoli prigionieri e di intere popolazioni civili, facendo così bestemmiare da altri quel nome di Dio che loro “nominano invano”.
Eppure, c’è ancora chi crede, chi si sforza ogni giorno di “credere”: perché “credere” non significa sottoscrivere affermazioni dogmatiche o ripetere formule di catechismo, ma “aderire”, restare attaccati con tutto il proprio essere – corpo, mente, cuore e spirito – a colui che si confessa come proprio Signore. C’è ancora chi crede perché ha incontrato, ha conosciuto e dunque ama chi lo ha amato e cercato per primo. Credere, allora, significa “camminare dietro”, seguire una via tracciata da Gesù di Nazaret per “ritornare” a essere quell’uomo in pienezza di vita che Dio ha voluto che fossimo; significa coltivare piante e cercare di produrre frutti conseguenti alle radici che ci alimentano e che vanno custodite più che esibite; significa narrare, dipingere, testimoniare un “volto” di Dio il più fedele possibile a quello che si è visto e conosciuto attraverso la vicenda terrena e umanissima di Gesù di Nazaret e il suo impatto sulla propria esistenza.
E in cosa crede chi crede? Certo se davvero ci fossero “cristiani” che trovano incredibile che Cristo sia risorto, allora non sarebbero cristiani, ma non si può deridere e sbeffeggiare uomini e donne che realmente continuano a rispondere alla domanda posta da Gesù: “E voi, chi dite che io sia?”, mostrando con la vita che questa fede li costruisce, li motiva, li lascia liberi, li umanizza e li rende capaci di amare e di accettare di essere amati. Il cristiano crede in Gesù Cristo, cioè crede – sulla testimonianza di quanti furono coinvolti nella sua vita e furono disposti a pagare la loro qualità di discepoli di Cristo con il martirio – che quest’uomo ha vissuto l’amore all’estremo e così ha narrato, spiegato Dio: proprio perché ha vissuto il suo amore all’estremo fino a contrapporsi alla morte, ha vinto la morte ed è risorto alla vita. Per il cristiano queste non sono parole, non sono allegorie di redenzione, sono verità che sente capaci di dare senso alla propria vita, di fornirgli ragioni per credere all’amore e per dire un sì a questa vita, a questa umanità, a questo tempo.
Sì, c’è ancora chi crede, e sono uomini e donne che dicono, nella quotidianità nascosta dei loro gesti, che la vita è più forte della morte e che l’amore è più forte dell’odio. Sono persone che non hanno imparato a credere dai libri, ma da altri oscuri testimoni della speranza prima di loro, che hanno saputo ridire con parole nuove e vere il “senso” che ha abitato la vita di Gesù il quale, essendo Dio, si è fatto uomo in una vita reale e quotidiana come la nostra. E’ guardando a queste persone, capaci di sperare contro ogni speranza, che ancora oggi è possibile l’avventura del credere che trasforma la storia e le storie in un’unica, multiforme e policroma vicenda d’amore.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa