Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Da Tolstoj a Capitini la fine del nemico

12/09/2006 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2006,

Da Tolstoj a Capitini la fine del nemico

La Repubblica

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12 settembre 2006

Da cinque anni, ogni volta che ritorna la data dell’11 settembre, il pensiero e il ricordo di tutti va all’attacco terroristico al cuore degli Stati Uniti e alla tragica svolta che ha impresso alla nostra storia, stabilendo un “prima” e un “dopo” nell’approccio ai problemi più complessi, che siano di natura geopolitica o economica, di globalizzazione o di confronto tra mondi culturali o religiosi, di giustizia internazionale o di concezione della guerra. Ma l’11 settembre è anche l’anniversario di altri eventi. Due risalgono a quattro secoli fa, ma sono stranamente legati ai luoghi o alle problematiche del 2001: è in quel giorno del 1609 che l’esploratore Henry Hudson sbarcò per la prima volta sull’isola di Manhattan, proprio mentre al di qua dell’Atlantico, a Valencia, veniva emanato un ordine di espulsione contro i musulmani che non accettavano di convertirsi, preludio alla cacciata di tutti i moriscos dalla Spagna. E come dimenticare, in tempi più recenti, l’11 settembre 1973? In Cile una giunta di militari appoggiata dai servizi segreti della più grande potenza democratica rovesciò nel sangue il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, instaurando una dittatura tra le più feroci e longeve dell’America latina.

 

Ma l’11 settembre di quest’anno è anche il primo centenario di un evento raramente ricordato nelle cronache, la cui memoria tuttavia fornisce preziosi elementi di riflessione e di azione proprio nel contesto di conflittualità globale scatenato dall’11 settembre 2001. Siamo a Johannesburg, Sudafrica. Una proposta di legge vorrebbe confinare gli indiani e gli altri asiatici presenti nel paese in una condizione di semi-illegalità, per non dire di sub-umanità. Alcune migliaia di loro si riuniscono al Teatro imperiale per decidere la forma di resistenza da adottare contro quel provvedimento iniquo. Uno dei promotori della manifestazione, un giovane avvocato di nome Gandhi, proclama la sua ferma risoluzione di affrontare anche la morte piuttosto che sottomettersi alla legge ingiusta. Dopo il suo appassionato discorso, tutti i presenti giurano di non piegarsi a quel sopruso. L’11 settembre 1906 diviene così il giorno della nascita della nonviolenza.

 

Questo termine – che uno dei suoi sostenitori più lucidi, Aldo Capitini, insegnerà a scrivere (e a pensare) tutto attaccato, per distinguerlo dalla “non violenza”, la semplice assenza di violenza, e declinarlo invece come lotta tenace, limpida e coerente contro ogni violenza – racchiude in sé due concetti complementari elaborati da Gandhi ma, per sua stessa affermazione, “antichi come le montagne”: quello di ahimsa (lotta contro la violenza, in-nocenza come rifiuto di nuocere, riconciliazione) e quello di satyagraha (forza della verità, ma anche energia di amore, rispetto per la pienezza della vita). Ma l’aspetto più significativo della nonviolenza è il suo essere al contempo teoria e prassi, riflessione e azione, interiorità e lotta. Così la storia ha conosciuto declinazioni diverse di questo convincimento interiore che si fa agire concreto: se Tolstoj, per esempio, ne ha valorizzato soprattutto l’aspetto di ritrovata armonia con se stessi, con gli altri e con la creazione, Martin Luther King l’ha interpretato come “forza dell’amore” capace di abbracciare anche il nemico per disarmarlo, mentre i quaccheri lo vivono ancora oggi come pacifismo radicale che rifiuta ogni guerra.

 

E se diversi e complementari sono stati gli approcci teorici a questa visione del mondo e dei rapporti sociali, altrettanto svariati sono stati e possono essere gli strumenti utilizzati per tradurre le convinzioni in prassi capace di mutare gli eventi della storia: digiuni e marce, boicottaggi e difesa popolare nonviolenta, battaglie legislative e interposizioni disarmate. Ma l’obiettivo costante di ogni iniziativa nonviolenta va ben al di là del coinvolgimento del maggior numero possibile di uomini e donne nella lotta e mira a ricondurre anche l’avversario all’interno di un’unica comunità umana riconciliata. Con estrema lucidità lo storico inglese Arnold J. Toynbee ha osservato che il satyagraha predicato e attuato da Gandhi “ci ha reso impossibile continuare a governare l’India, ma ci ha permesso di partire senza rancore e senza disonore”. Così, se si confrontano due lotte di liberazione dalla presenza coloniale vissute a una dozzina d’anni di distanza – quella dell’Algeria dalla Francia e quella dell’India dalla Gran Bretagna – non si può fare a meno di constatare che la prima, condotta principalmente con metodi violenti, ha causato quasi un milione di perdite umane e ha tuttora pesanti strascichi di incomprensione e di insofferenza, mentre la seconda, condotta con mezzi essenzialmente nonviolenti, ha conosciuto appena un migliaio di morti – pur in un paese ben più popoloso – e ha facilitato da subito nuovi rapporti di cooperazione e scambio pacifico.

 

Sì, il rispetto della vita e della dignità anche del peggior nemico è parte integrante della nonviolenza perché scopo di quest’ultima non è il trionfo di una fazione contro un’altra ma il riconoscimento e la valorizzazione dell’umanità comune a tutti gli esseri umani. E’ lo stesso concetto, espresso con il termine africano di ubuntu, che ha reso possibile uno dei più straordinari processi di guarigione della memoria che il nostro mondo abbia conosciuto: la “Commissione per la verità e la riconciliazione” istituita in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid è riuscita là dove ha fallito il tribunale di Norimberga e dove si sta arenando quello internazionale dell’Aia: rileggere il passato, riconoscere e condannare il male commesso offrendo nel contempo a vittime e carnefici la possibilità di cogliere un senso nel dolore, di pesarne le ferite e la speranza di poter vivere un futuro liberato dalle atrocità conosciute.

 

Certo, ci si chiederà come sia possibile vivere la nonviolenza nel contesto tragicamente inedito del terrorismo suicida e della guerra asimmetrica tra eserciti nazionali o sovranazionali e civili assoldati per imprese mortifere disperate: non è forse utopia pensare di contrastare le bombe a mani nude? Ma la storia ci dovrebbe insegnare che la risposta violenta e armata non solo è altrettanto inadeguata a fronteggiare questi nuovi scenari apocalittici, ma sempre più spesso si mostra non come la soluzione del problema bensì come il suo progressivo aggravamento: la spirale della violenza, infatti, non viene spezzata ma accelerata da una violenza più forte che non fa che precipitare tutti sempre più velocemente nel baratro della disumanizzazione. Ecco allora che l’11 settembre 1906 ha ancora molto da insegnare a noi sconvolti dall’inaudito piombatoci dal cielo l’11 settembre 2001.

 

Enzo Bianchi

 

Pubblicato su: La Repubblica