Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Vaticano II: un concilio incompiuto

08/12/2005 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2005,

Vaticano II: un concilio incompiuto

La Stampa

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8 dicembre 2005

Sono passati quarant’anni dalla conclusione del concilio Vaticano II, evento che ha significato un cambiamento epocale nella vita dei cattolici e ha segnato in modo forte la storia dell’umanità. Fin dai tempi biblici, quarant’anni indicano simbolicamente il passaggio completo da una generazione all’altra, così oggi solo pochissimi degli attori principali dell’evento sono ancora tra noi: questo significa che l’eredità del concilio è ormai affidata alle nuove generazioni. E, a prima vista verrebbe da dire che nella chiesa c’è una diffusa disattenzione, e forse anche una disaffezione, rispetto al concilio, perché da allora molte cose sono mutate nella storia del mondo e chi non è stato testimone di quella stagione si sente collocato altrove.

 

Tuttavia, se si presta attenzione non alla superficie ma al tessuto profondo della vita ecclesiale, si deve constatare che alcuni mutamenti avvenuti sono irreversibili, che la forma della fede come è vissuta e professata dai cattolici oggi è quella plasmata dal concilio e che esso rimane la “bussola” per la chiesa agli inizi del terzo millennio cristiano. Nel 1982, per i vent’anni dall’apertura del concilio, l’allora cardinal Ratzinger tentò una lettura del postconcilio, e quindi della realizzazione dell’assise conciliare nella vita della chiesa, indicando una prima fase entusiasta, in cui era l’eventodel concilio, più ancora che i suoi testi, a determinare una dinamica nella vita ecclesiale capace di operare una riforma nella liturgia, nelle strutture della chiesa, nella pastorale. Tutte le energie erano tese  a mettere sempre più al centro la parola di Dio contenuta nella bibbia e, soprattutto, a fare in modo che il vangelo diventasse il “canone”, la “regola” nella vita dei cristiani.

 

In quella fase sopraggiunse il sessantotto, in cui le istanze di mutamento apparivano rivoluzionarie e capaci di negare ogni eredità e ogni tradizione. La paura colse molti uomini di chiesa, anche tra i protagonisti del concilio, e così possiamo dire che scese una gelata su quella che era una tumultuosa ma ricca e feconda primavera. Tensioni, conflitti e polarizzazioni irrigidite lasciavano emergere una presenza di “conservatori”, che imputavano al concilio la crisi di dissolvimento del cattolicesimo e volevano “salvarlo” con una interpretazione restrittiva dei testi, mentre dal lato opposto alcuni, a dir vero pochi, “innovatori” iniziarono un esodo che li condusse all’approdo di un’interpretazione messianico-politica del cristianesimo. Così all’entusiasmo subentrò la fase della speranza delusa...

 

Successivamente si ebbe una fase ulteriore, che coincide a grandi linee con il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, una fase letta da molti come momento di sintesi e di equilibrio. È in questa fase che alcuni testi e soprattutto alcuni gesti del papa indicano una direzione precisa di realizzazione del concilio, soprattutto sui temi del dialogo interreligioso, dell’ecumenismo e della pace come annuncio cristiano e impegno possibile per tutti gli uomini di buona volontà. Tuttavia Giovanni Paolo II, peraltro accusato più volte di tradire il concilio, ha ripetuto fino alla fine del suo pontificato che il Vaticano II attende ancora di essere realizzato, così come il suo successore, Benedetto XVI, fin dal discorso di inaugurazione del suo ministero ha affermato con forza la sua “decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del concilio”.

 

Ora siamo in una nuova fase di attuazione del Vaticano II, una fase in cui, ne sono convinto, sarebbe possibile un’attuazione matura, operata con un sapiente discernimento, possibile anche grazie alla fine di molte querellestroppo partigiane e personalizzate. D’altronde la storia insegna che occorrono decenni prima di una ricezione e di un consenso conciliare che apra un’attuazione creativa, tanto più per il Vaticano II che è stato, pur nella puntuale continuità della grande tradizione cattolica, un concilio che ha immesso il cattolicesimo in una nuova fase della storia, tentando una riforma, un “aggiornamento”, per usare il termine coniato e reso eloquente da chi il concilio aveva pensato e voluto: Giovanni XXIII. Teologi di grande qualità, osservatori attenti avevano potuto parlare di fine della Controriforma, altri di fine della cristianità costantiniana, altri ancora di tramonto di una chiesa “occidentale” e di apparizione di una chiesa veramente universale a dimensione mondiale. Alcuni teologi hanno visto un mutamento simile a quello avvenuto alla fine del I secolo, quando la “chiesa dei giudei” si scoprì soprattutto “chiesa delle genti”, di quanti cioè provenivano dal paganesimo.

 

Nella vita ecclesiale, in realtà, un discernimento oculato impone di non credere che sia facile applicare e realizzare quanto è ispirato dal vangelo. È molto più facile dare avvio e concretizzare istanze mondane. Se invece una “riforma” è davvero spirituale e tenta di dare corpo e concretezza alle istanze autentiche del cristianesimo come sequela di Cristo, allora si possono solo attendere contraddizioni, regressioni, difficoltà e ricadute. Non c’è nulla a basso prezzo quando è in gioco la dinamica della grazia: nessun ottimismo ingenuo, nessun sogno di una facile realizzazione di ciò che lo Spirito ha indicato alla chiesa...

 

A distanza di quarant’anni occorre saper vedere i mutamenti reali, ma anche leggere le inadempienze e le contraddizioni. E occorre farlo con la piena consapevolezza che la chiesa nel sinodo straordinario del 1985 ha accolto in modo definitivo il concilio come “grazia” e che da allora ogni sinodo dei vescovi diventa un’occasione per ribadire un sì convinto ai frutti conciliari, come ha fatto anche il più recente, dedicato all’eucaristia, nel riaffermare l’adesione ferma e unanime alla riforma liturgica voluta dal concilio. Sì, dobbiamo riconoscere che la chiesa nella sua qualità di “popolo di Dio” - definizione ripresa proprio dal Vaticano II – ha dato il proprio consenso all’assise conciliare.

 

Così la centralità della parola di Dio, la liturgia resa comprensibile e capace di far partecipare i fedeli, l’ecumenismo come itinerario verso la comunione visibile tra le chiese, il nuovo rapporto che la chiesa vive con gli ebrei, popolo di Dio ieri e oggi, sono acquisizioni che continuano a plasmare il modo di essere e di agire della comunità ecclesiale: sono queste le vie del concilio che papa Benedetto XVI con responsabilità primaziale afferma di voler percorrere come impegno primario, senza risparmio di energie.

 

Più delicato, invece, è in questo momento il rapporto tra chiesa e mondo o, meglio, la collocazione della chiesa nel mondo. Se lo spirito del concilio, espresso attraverso la costituzioneGaudium et spese il magistero di Paolo VI, appariva spirito di dialogo “in cui la chiesa si fa comunicazione” (“la chiesa – affermava Paolo VI – non sente estraneo il mondo, neanche se il mondo sente estranea la chiesa”) oggi in questo dialogo si è più esitanti, se non addirittura più paurosi. È vero, il contesto è mutato e gli orizzonti del mondo, delle culture e dei popoli non sono segnati come allora dalla speranza. D’altro canto, quel testo conciliare – che in molti giudicammo come ingenuo, troppo ottimista, quasi capace di suggerire un accomodamento della chiesa al mondo – oggi appare capace di ispirare la generazione attuale dei cristiani, ricordando loro la possibilità di stare nella compagnia degli uomini, anche se si fosse perseguitati, senza nutrire inimicizie, senza fomentare contrapposizioni ma seguendo la via percorsa e indicata da Gesù, una via che non cerca il potere, non confida nelle ricchezze e nei beni, rifugge da ogni riconoscimento mondano e da ogni privilegio.

 

E proprio questo testo continua a ricordare che la presenza dei poveri è segno dell’ingiustizia umana e, quindi, sacramento di Cristo vittima della medesima ingiustizia: per questo, e non per opzione ideologica, al concilio si parlò di “chiesa povera” e di “chiesa dei poveri”, un linguaggio che oggi non risuona più negli ambienti cristiani di qualunque composizione e che appare quasi incomprensibile.

 

Proviamo a chiederci come sarebbero oggi i cattolici senza quel documento del concilio che si rifiutava di vedere chiesa e mondo come asetticamente separati tra loro ma invitava a discernere i “segni dei tempi” per riconoscere lo Spirito di Dio all’opera anche fuori della chiesa: in quale arroccamento ci troveremmo, in quale contrapposizione dualistica tra chiesa e mondo, in quali diatribe controversistiche e difensive rispetto alla società umana... Davvero l’ethos della Gaudium et spesè più importante delle soluzioni concrete che offriva. In questa stessa ottica, il Vaticano II è stato un concilio aperto non solo agli influssi culturali più diversi, grazie alla inedita presenza di vescovi ed esperti dei cinque continenti, ma anche alle altre confessioni cristiane, presenti con “osservatori” capaci di arricchire il dibattito nelle fasi di studio e di approfondimento: un concilio veramente “ecumenico”, dopo tanti celebrati come come concili generali della chiesa cattolica, un concilio concepito e vissuto come “processo ecclesiale aperto” e, proprio per questo, ancora capace di determinare le scelte della chiesa.

 

È difficile negare che senza il concilio come stagione dello Spirito e come luogo di elaborazione teologica e di confronto pastorale, non si sarebbe potuti arrivare alla confessione delle colpe e alla richiesta di perdono che ha contraddistinto evangelicamente il giubileo del 2000; non avremmo avuto il riconoscimento della “fraternità”radicale tra Israele e la chiesa; sarebbe stato impossibile il dialogo con le altre religioni nella convinzione che anche in esse sono presenti “semi” della parola di Dio, semi della presenza dello Spirito santo e, quindi, semi di verità.

Oggi c’è chi invoca un concilio Vaticano III e credo che, dopo quarant’anni, una forma di confronto tra i vescovi del mondo debba avvenire: se la chiesa è davvero sinodale, conciliare, ha necessità di questo confronto, anche se la forma può essere diversa dalla celebrazione di un concilio. Questo però non toglie che il Vaticano II debba ancora essere pienamente attuato e che quella “novella pentecoste” conservi anche oggi tutta la sua carica. Sì, nella storia della chiesa il Vaticano II resta un evento rarissimo, non solo perché avvenuto a distanza di novant’anni dal precedente e di oltre quattrocento da quello di Trento, ma perché è stato un concilio voluto non “contro” un’eresia, ma per una maggiore obbedienza al vangelo, un soffio dello Spirito a favore degli uomini in mezzo alla quali la chiesa sta come pellegrina, testimone di un futuro di speranza per l’umanità intera.

 

Enzo Bianchi