30 ottobre 2005
Dal sinodo dei vescovi sul tema dell’eucaristia, vissuto a Roma nei giorni scorsi, sono emerse anche due indicazioni che, seppur di carattere procedurale, appaiono molto significative. Innanzitutto, Benedetto XVI ha voluto che ci fosse in conclusione dei lavori di ogni giorno lo spazio per un libero confronto tra i vescovi, con interventi e reazioni spontanee, senza previa stesura del testo; poi il papa ha stabilito che le “proposizioni” finali, cioè le proposte emerse dal confronto sinodale e destinate a essere da lui riprese per l’elaborazione di una sua “esortazione postsinodale”, fossero rese pubbliche integralmente subito, offrendole così alla riflessione di tutti i cristiani. Mi paiono segni di una direzione ben precisa: non si ha paura di far conoscere la fatica, il confronto e anche la pluralità di posizioni che esiste nel corpo episcopale e, quindi, si invita anche nella chiesa nel suo complesso ad approfondire, a ricerca, a dibattere i problemi emergenti.
Lo ritengo un dato assai importante, soprattutto nella strana stagione che stiamo vivendo. In questi decenni dopo il concilio, infatti, i cattolici hanno fatto indubbiamente grandi passi nell’acquisizione di una maturità della fede, di un’assiduità con la parola di Dio contenuta nella bibbia, si muovono sempre di più verso una “fede pensata” ed è vistoso il loro impegno nel servizio agli ulti’mi e ai poveri. Tuttavia, a giudizio di molti, manca ancora qualcosa affinché la comunione ecclesiale sia davvero il respiro della chiesa. Il giudizio di molti, all’interno e all’esterno della chiesa, individua una situazione a volte tranquilla, altre volte stagnante, altre ancora silente, con un laicato che non ha voce e appare soffrire di sottoesposizione. Ci sono tante parole, forse anche troppe parole, perché si sono moltiplicati gli incontri ecclesiali con dimensioni oceaniche, ma si sono rarefatti gli spazi di dialogo e di confronto, privilegiando l’aspetto del “vedere” rispetto all’ascoltare. C’è ormai un’inflazione delle cosiddette “testimonianze”: si enfatizza la presenza di uomini e donne carismatici, li si esibisce invitandoli a parlare di sé, della loro storia, degli aspetti eclatanti delle loro vicende e questo a scapito della riflessione, dell’attenzione al feriale della vita cristiana, trascurando la laboriosa fatica della ragionevolezza della fede. In parallelo, sovente appaiono dichiarazioni perentorie e sicure da parte di organizzazioni ecclesiali, che tuttavia assai raramente sono esito di un confronto e di un dialogo interno.
Chi ha conosciuto il postconcilio ricorda certo le forti tentazioni, cui a volte si è anche ceduto, di contestazione e di contraddizione della comunione ecclesiale, ma ricorda anche il coraggio, la passione, la volontà di esercitare la propria responsabilità nella vita ecclesiale. A quella stagione, segnata anche dalla conflittualità, è subentrato non un vissuto di comunione più profondo e praticato nel quotidiano, ma un appiattimento, una stanchezza che a volte lascia spazio alla tentazione di non partecipare più al cammino ecclesiale. Va confessato: esiste purtroppo quello che qualcuno ha definito uno “scisma sommerso”, la presenza di cristiani che se ne vanno per la loro strada.
A volte mi chiedo se, logoratisi per abuso di passione per il confronto, i canali di comunicazione non si siano intasati rendendo impraticabile lo scambio dialogico tra i cristiani e tra i fedeli e l’autorità ecclesiale. Questo dato non dovrebbe rallegrare nessuno, neanche chi come guida è chiamato a svolgere un magistero, perché questa acquiescenza non significa maggiore obbedienza cristiana, né maggior senso della comunione: appare piuttosto come pigrizia spirituale, come mancanza di ricerca, come delusione patita nel tentativo di discernere volti della chiesa più conformi al vangelo.
Eppure, paradossalmente, tutti vogliono dialogare con tutti all’esterno della chiesa. Ma una chiesa che pretende di comunicare, di dialogare con i non cattolici e non si mostra capace di avere dialogo al proprio interno non è credibile: è una questione di semplice coerenza. Paolo VI, quando affrontò il tema del dialogo, lo considerò non una strategia alla ricerca di maggiore efficacia, ma un problema di fondo, di identità della chiesa stessa. Se una parola deve essere dialogo e confronto con chi non è cattolico, questa parola deve esserlo già all’interno del corpo, dell’organismo che vuole dialogare e comunicare: per poter allargare i cerchi del dialogo, è necessario promuoverlo innanzitutto nello spazio ecclesiale, all’interno della chiesa cattolica, tra i suoi figli. Saper ascoltare tutti, dare la parola a tutti e, quindi, parlare è ciò che caratterizza uno spazio in cui è possibile il formarsi di un’opinione pubblica, il recupero di quella parresia, di quella franchezza e libertà di parola che fa parte dello statuto cristiano.
Pio XII nel 1950 denunciava la mancanza di opinione pubblica nella chiesa: “Là dove non appare nessuna manifestazione di opinione pubblica, là dove si constata una sua reale inesistenza ... occorre vedervi un vizio, un’infermità, una malattia della vita sociale. Così anche in seno alla chiesa: essa, corpo vivente, mancherebbe di qualcosa di vitale se l’opinione ecclesiale mancasse, e questo sarebbe un difetto che ricadrebbe sui pastori e sui fedeli”. Sì, sui fedeli, perché non si assumono questa responsabilità insita nel loro battesimo, ma anche sui pastori che non la incoraggiano o addirittura la ostacolano o la rendono muta. La parole di Pio XII sono da riproporsi ancora oggi e ci interpellano, perché non giova a nessuno far credere che la vita ecclesiale funzioni in una unanimità formale.
Una chiesa veramente “comunionale” è anche quella in cui la libertà è vissuta e assunta responsabilmente dal cristiano che percepisce come attesa, auspicata la propria voce, anche qualora risuonasse differente. Non credo di essere il solo a sognare delle comunità e delle chiese in cui, senza scadere nella divisione, senza essere preda del detestabile spirito della contestazione e del più attestato spirito della mormorazione, si abbia il coraggio e la libertà di esprimere anche un “dissenso leale” là dove non è richiesta l’unità della fede. La chiesa non ha nulla da perdere ma tutto da guadagnare se riesce a mostrare che il prendere la parola, prima di essere un rischio, è una responsabilità, cioè un rispondere a un corpo di cui si fa parte, a una comunione plurale costruita giorno dopo giorno.
I vincoli di comunione che devono essere rispettati all’interno della comunità cristiana chiedono anche la pratica dell’obbedienza ai pastori, ma non escludono mai confronto e dialogo: quando si afferma che la vita della chiesa non è riducibile a una “democrazia” non si vuole affermare che essa è autocrazia o monarchia, bensì che si tratta di una realtà teologale in cui la presenza dello Spirito crea il “senso della fede” e dà la possibilità del discernimento nella saldezza e nell’unità dell’intero corpo ecclesiale. I cristiani sappiano impedire il profilarsi di una loro caricatura, che li delinea incapaci di pensare da se stessi: chi esercita il diritto di parlare e chi ha il compito di conferire ordine all’esercizio della parola siano entrambi servi della parola e della comunione. Ne trarrà beneficio non solo la vita ecclesiale, ma ogni altro confronto nella nostra società plurale.
Enzo Bianchi