18 agosto 2005
“Voi che giungete qui: riconciliatevi! Cattolici, protestanti, ortodossi / giovani e anziani / bianchi e neri”. Questo il grande cartello che accoglieva i pellegrini e gli ospiti a Taizé a metà degli anni sessanta. Taizé - “questa primavera per la chiesa” come l'aveva definita papa Giovanni XXIII – era allora una comunità di fratelli protestanti, fondata da fr. Roger Schutz negli anni quaranta: una comunità che pregava e ricercava l'unità visibile dei cristiani divisi, separati, sovente in opposizione da secoli. Fr. Roger, figura carismatica e profetica, aveva letto in anticipo i segni dei tempi e con quei fratelli aveva ormai percorso un lungo cammino, aprendo sentieri ecumenici nella teologia, nella liturgia, nella spiritualità: per questo era stato invitato come “osservatore protestante” al Vaticano II... Fu nell'agosto del 1965, poco prima della fine del concilio che salii su quelle colline della Borgogna per conoscere da vicino quella primavera dell'unità. Incontrai fr. Roger e ne nacque una straordinaria amicizia, senz'altro la più importante e decisiva per la mia vita. Erano gli anni in cui sembrava vicino il traguardo dell'unità visibile e a Taizé cardinali e vescovi cattolici, patriarchi e metropoliti ortodossi, pastori protestanti e teologi di ogni confessione si incontravano e dialogavano.
Fr. Roger, era un grande tessitore di dialogo, grazie alla sua semplicità evangelica: trasparente nel cuore come i suoi occhi azzurri, mostrava una grande semplicità, lontano da ogni arroganza, da ogni pregiudizio. Già allora tutti convenivano: era un “uomo di Dio”; era stimato e venerato quasi come un santo, ma lui restava semplice e povero, mai inorgoglito dal successo inatteso e impensabile. Quando dalle sue labbra uscivano le parole di sapienza, era l'autorevolezza stessa del vangelo: diventava allora naturale porsi in atteggiamento di ascolto.
Quante volte nella sua cella ho assistito a dialoghi talora anche duri, in cui chiedeva con risolutezza ad autorità delle chiese venute da lui pazienza, misericordia, audacia nel porre gesti concreti in vista della riconciliazione e della comunione. Il suo insegnamento era semplice, ridotto all'essenziale: un canto di amore e di infinita misericordia offerto agli uomini e alle donne del nostro tempo, perché trovino vie di senso e conoscano la speranza in ogni situazione. Ideò un “concilio dei giovani”, cogliendo lucidamente il rischio di una rottura della tradizione e la difficoltà nel trasmettere la fede: comprendeva l'incessante anche se confusa ricerca dei giovani ed era convinto che bisognasse raggiungerli là dove loro stavano cercando, piuttosto che invitarli a venire dove volevamo noi. Così le settimane di Taizé e i raduni mondiali per i giovani, vissuti ogni anno in una grande metropoli diversa, hanno anticipato e ispirato le Giornate mondiali della gioventù volute da Giovanni Paolo II. Una strada non facile, ma percorsa con convinzione dal priore Roger fino in fondo: negli anni della protesta giovanile, osava chiedere ai giovani la testimonianza e la preghiera, non per una fuga dalla storia, ma per mutare la storia alla luce di Cristo.
Sovente gli ho sentito ripetere con fede salda che in molte epoche è bastato un piccolo numero di uomini e di donne per mutare il cammino della storia con la loro fede e la loro prassi segnata dall'amore, dalla riconciliazione, dalla pace: nella nostra epoca fr. Roger è stato una di queste figure che hanno saputo segnare con il balsamo del vangelo le sofferte vicende umane. “Cattolici, ortodossi e protestanti, giovani e anziani, bianchi e neri” di tutti i continenti possono solo dirgli grazie dal fondo del loro cuore.
Enzo Bianchi