18 agosto 2005
Ha accolto la morte violenta proprio là dove traeva sorgente la sua capacità di accogliere tutti: davanti al Signore, in preghiera, al cuore della sua comunità, attorniato da migliaia di giovani. È morto come un povero, indifeso di fronte alla cieca violenza di chi non sa quello che fa. Si è spento con lo spegnersi del giorno, versando il suo sangue dopo aver speso tutta la vita per testimoniare il vangelo della pace e della riconciliazione. Non batte più il cuore di fr. Roger, ardente di passione per l'unità dei cristiani, non brillano più i suoi occhi trasparenti come il mare, capaci di farti sentire amato con un semplice sguardo... Eppure il seme che quell'allora giovane pastore riformato svizzero ha iniziato a gettare all'inizio della seconda guerra mondiale sulle colline della Borgogna è cresciuto ed è divenuto un albero rigoglioso capace di rendere conto della speranza cristiana agli uomini e alle donne del nostro tempo.
Bene aveva colto questa verità Paul Ricoeur, il quale, poco prima di morire, scriveva: “Taizé è una sorta di sperimentazione perché vuole mostrare come la religione abbia a che fare con la bontà ... vuole testimoniare che il male non è così forte e profondo come la bontà”. Sì, con fr. Roger si poteva sperimentare la beatitudine del vangelo rivelato ai piccoli, la semplicità, la mitezza e nel contempo la forza dirompente dell'annuncio cristiano. La comunità di Taizé non ha mai voluto avere una teologia propria, ma ha contribuito a far sì che le teologie tenessero conto della comunione; non ha elaborato una liturgia propria, ma ha permesso a cristiani di tutte le confessioni di pregare insieme; non ha insegnato una propria etica, ma ha aiutato a capire che una vera umanizzazione dell'uomo reca con sé pace e giustizia; non ha approntato una pastorale giovanile, ma ha saputo parlare ai giovani perché ne ha colto la sete di senso e ha evitato la rottura della trasmissione con il dialogo tra giovani e anziani.
Un messaggio semplice, quello di fr. Roger, limpidamente racchiuso nei titoli dei suoi primi libri: “Unanimità nel pluralismo”, “Dinamica del provvisorio”, “Lotta e contemplazione”, “Vivere l'oggi di Dio”... Non formule ad effetto, ma un messaggio credibile perché chi lo proponeva cercava di viverlo giorno dopo giorno, personalmente e comunitariamente: il paradosso cristiano diventa così “leggibile” anche da chi cristiano non è, diventa vivibile anche da chi crede che sia qualcosa di troppo grande per lui, diventa sensato anche per chi non trova più senso alla propria esistenza.
Nell'agosto del 1965, pochi mesi prima della fine del concilio, volli salire a Taizé, quella “primavera per la chiesa” come l'aveva definita papa Giovanni XXIII. Erano anni di grande speranza nella chiesa: il concilio, cui fr. Roger aveva partecipato come “osservatore non cattolico”, aveva fatto soffiare sulla chiesa il vento di una “novella pentecoste” e il traguardo dell'unità visibile dei cristiani sembrava a portata di mano. Il priore di Taizé, con la sua semplicità evangelica sapeva accogliere e ascoltare tutti, dai cardinali ai viandanti, mettendo ciascuno a proprio agio e, nel contempo, stimolandolo con vigore a ripensare la propria fede e la propria testimonianza alla luce della riconciliazione e della comunione. Così accolse anche me, allora giovanissimo: da quel primo incontro con fr. Roger nacque l'amicizia più importante e decisiva per la mia vita. Un giorno ebbi anche la gioia di accoglierlo nel mio piccolo alloggio di via Piave a Torino, dove si radunava un gruppetto di cristiani di diverse confessioni per pregare insieme e insieme riflettere sulla presenza dei cristiani nel mondo: dono inatteso e presenza di incoraggiamento e di speranza. Pochi anni dopo, nel 1968, quando la confidenza era ormai cresciuta, fr. Roger mi invitò a raggiungerlo a Taizé per iniziare la vita comune di cattolici nella comunità, allora formata solo da fratelli delle chiese della riforma. Io avevo già iniziato la mia vita monastica a Bose e, essendo per costituzione un uomo che non si volge indietro, declinai il suo invito e rimasi fedele a una chiamata percepita come unica e univoca nella mia vita. So che questa mia decisione lo fece soffrire, ma l'amicizia non venne meno e la strada intravista da fr. Roger trovò uno sbocco: l'anno successivo Taizé accolse in comunità i primi fratelli cattolici.
Solo un paio di mesi fa sono passato ancora una volta a Taizé con il presentimento, data la sua età, che sarebbe stato l'ultimo incontro con lui: aveva da poco festeggiato i novant'anni, nella gioiosa semplicità che lo caratterizzava. Conversammo su quello che più stava a cuore a entrambi: la “corsa” del vangelo tra gli uomini e le donne di oggi, l'unità della chiesa, la riconciliazione e la pace nei conflitti, la giustizia e la solidarietà verso i più poveri. Nelle sue parole e nel suo sguardo avevo ritrovato l'essenziale del suo messaggio, portato da Taizé ai quattro angoli del mondo: “parabola di comunione”, come ha definito Olivier Clément quel piccolo nucleo di fratelli capace di sperare contro ogni speranza. Sì, fr. Roger mi testimoniava ancora una volta che il cristianesimo è comunione e che solo la logica della comunione fa passare gli uomini dall'angoscia alla fiducia, dalla sofferenza alla gioia della vita piena e riconciliata. È rimasto fino all'ultimo quell'uomo semplice che è sempre stato: il successo non l'ha mai inorgoglito, la fama non lo ha mai turbato, il suo cuore è rimasto sempre quello di un “piccolo” che si abbandona fiducioso nelle braccia del Signore. Ora riposa in quelle braccia.
Enzo Bianchi