9 aprile 2005
Giovanni Paolo II ha raggiunto la nuda terra ed è stato sepolto in quei sotterranei della Basilica Vaticana dove sono venerate le spoglie dell’apostolo Pietro di cui è stato un successore. Anche lui, terrestre come tutti gli uomini, tratto dalla terra è tornato alla terra, e come cristiano è entrato nella vita eterna, in una comunione con Dio senza mediazioni né veli. Nel testamento – luogo in cui l’estensore esprime intelletto e cuore nel modo più autentico – è significativo che Giovanni Paolo II parli più volte del suo essere papa come “servizio petrino” e lo percepisca “in medio Ecclesiae”, in mezzo alla chiesa, in mezzo al suo popolo, ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Sì, Giovanni Paolo II è stato un papa che ha vissuto ed è morto in mezzo alla sua chiesa.
Per chi è cristiano, ciò che è apparso come un’epifania in questa morte di fronte al mondo è l’averla vissuta come un “atto puntuale” e al cuore della chiesa: anche se il papa non avesse pronunciato quell’ “Amen” di cui alcuni hanno riferito, il suo stesso morire lo è stato. Un “sì” all’essere stato chiamato in vita da Dio, un “sì” alla vita vissuta e spesa come cristiano, prete, vescovo e papa, un “sì” a questa consumazione attraverso una malattia difficile da assumere. Pensando all’evento della propria morte, Giovanni Paolo II ha più volte ripetuto e ha anche scritto: “In hora mortis meae voca me et jube me venire ad Te”, “Nell’ora della mia morte chiamami e comandami di venire a Te”. Questo è quello che ha ridetto nell’ora del suo esodo pasquale, ascoltando la parola del Signore rivolta a Pietro e a lui: “Seguimi!”.
Durante la liturgia del funerale sono risuonate le parole del dialogo tra Gesù risorto e Pietro: “Pietro, mi ami più di tutte queste cose? Più delle tue cose?”. E Pietro risponde con tremore, sempre più triste per il triplice ripetersi della domanda memoria del suo triplice rinnegamento: “Signore, ti voglio bene!”, quasi a significare: “Non so se sono capace di amarti, ma so, questo sì, di volerti bene!”. Poi Gesù acconsente a questa umile confessione di Pietro, che riconosce la propria debolezza e incapacità ad amare pienamente, e si limita a chiedergli: “Mi vuoi bene?”. Anche Pietro, anche un papa, come qualunque cristiano quando incontrerà il Signore nella morte, può pensare che l’incontro nella misericordia sarà questo: un dialogo sull’amore di cui si è stati capaci e la confessione dell’inadeguatezza umana. Pietro, la “Roccia salda” in realtà ha tremato, è stato scosso, ma Gesù gli ha riconfermato la chiamata e la missione. Per noi cattolici, il papa è innanzitutto il successore dell’umile pescatore di Galilea, e l’affetto, la preghiera che va al papa non deve mai scadere ad adulazione, idolatria: Gesù a Pietro ha chiesto la fede, l’adesione personale, la sequela nel cammino verso Gerusalemme, non gli ha chiesto di essere un superuomo, né un uomo impeccabile, ma gli ha chiesto con forza: “Seguimi!”. Karol Wojtyla ha mostrato di essere un uomo di fede, un confessore, capace di testimoniare Cristo a tempo e fuori tempo, di non temere di dire parole dure che potevano non piacere ai potenti, capace di andare contro corrente e di non cedere alle dominanti facili create dalle maggioranze mondane. La sua forza, che tanto ha stupito anche il mondo laico, veniva dalla sua fede e da nient’altro: chi ha fede, scorge l’invisibile, per questo non è scosso ma resta saldo.
Ora, nel momento della sua morte, gli accade ancora quello che gli era accaduto in vita: molti se lo accaparrano, molti lo utilizzano secondo i loro bisogni, molti lo strumentalizzano finendo per farlo apparire sempre più un uomo contraddittorio. Uomo della tradizione e della memoria non può tuttavia essere letto come un conservatore; uomo capace di grandi gesti profetici non può però essere letto come un rivoluzionario… Giovanni Paolo II è stato una figura complessa, il suo pontificato lunghissimo: occorrerebbe saper leggere in esso costanti ed evoluzioni, dinamiche e cambiamenti. È ancora presto per poter periodizzare il suo pontificato, ed è compito che spetterà soprattutto agli storici, ma il filo rosso che tiene unite le sue parole e i suoi gesti è lafede confessanteche nessuno sarà in grado di smentire.
È questa fede che lo portava a incontrare tutti, a non aver paura di incontrare anche chi avrebbe potuto essergli ostile o approfittare dell’incontro per secondi fini politici: forte della sua fede, incontro e dialogo lo assicuravano sull’esito, lo spingevano all’audacia. Per questo desiderava andare in Russia, per questo avrebbe voluto spingersi fino alla Cina, dove i cristiani continuano a essere perseguitati: dall’incontro, dal dialogo che non dimentica la giustizia e i diritti delle vittime potevano solo nascere frutti positivi. Sì, quella sua fede non gli permetteva di avere paura, e in nome di quella fede chiedeva ai cristiani “non abbiate paura!”. Di fronte alla secolarizzazione dilagante, di fronte alla sfida rappresentata dal confronto con l’islam, soprattutto di fronte ai poteri di questo mondo capaci di decidere guerre preventive e di dimenticare i poveri della terra, Giovanni Paolo II non ha avuto paura e ha esortato a non avere paura. Il coraggio di incontrare l’altro, di dialogare con l’altro senza condizioni previe è stato un suo progetto e per noi è un vero mandato, il suo lascito senza ambiguità.
Sarebbe difficile e presuntuoso voler misurare il mutamento spirituale avvenuto nei cristiani con il suo pontificato. Non c’è stata una “reconquista” cattolica nel mondo, né si sono aperte per la chiesa nella storia possibilità di ritorno alla cristianità, non c’è stata un’inversione di tendenza rispetto alla secolarizzazione in atto soprattutto in Europa. Ma certamente questo pontificato ha contribuito all’emergere di un’Europa non più divisa tra est e ovest, ha scongiurato uno scontro di civiltà, ha impedito che la guerra in Iraq potesse essere letta come una crociata o un conflitto tra cristianesimo e islam, ha reso più urgente un dialogo tra le confessioni cristiane in vista di una comunione per ora ancora tanto lontana, ha dato ai cattolici un esempio di fede fiera senza arroganza.
Certo, non ha fatto tutto quello che alcuni vorrebbero avesse fatto e il concilio Vaticano II continua a chiedere di essere realizzato pienamente nella vita delle chiese. Il papa lo scrive a chiare lettere nel suo testamento: “Il concilio Vaticano II è il grande dono dello Spirito santo … il grande patrimonio che desidero affidare a tutti coloro che sono e che saranno in futuro chiamati a realizzarlo”. La chiesa uscita dalla cristianità è diventata una chiesa veramente universale, mondiale, e attende di vivere una vera comunione plurale in cui siano riconosciute e valorizzate – e non giudicate come anomalie – le diversità e le peculiarità. Oggi appare sempre più evidente che il concilio è stato un evento che ha indicato una rotta da non invertire: dal prossimo papa dipenderà un’ermeneutica conciliare che ne assuma pienamente la ricezione, nel solco di quella “fraterna comunione nell’Episcopato” che Giovanni Paolo II confessa con gratitudine di aver sperimentato al concilio.
A Giovanni Paolo II vorremmo dire anche oggi solo una parola: “Grazie!”. È la parola che gli dissi quando ci affidò l’icona della Vergine di Kazan’ affinché la portassimo in Russia per donarla al patriarca Alessio II: “Grazie, Santità, per questo gesto evangelico e gratuito”. E il papa, con forte determinazione mi disse: “Coraggio, vada avanti!”. L’eredità di quel confessore della fede che è stato Giovanni Paolo II ci chiede di affrontare questa sfida rinnovata senza avere paura.
Enzo Bianchi