12 marzo 2005
La crisi della morale profilatasi alla fine dell’Ottocento è divenuta, un secolo più tardi, una vera e propria dissoluzione. Dissoluzione dei valori resa manifesta nella caduta dei grandi totalitarismi presentatisi come portatori e restauratori di grandi valori assoluti: i totalitarismi hanno caratterizzato il Novecento come una grande lotta tra valori etici contrapposti, ma il loro crollo ha significato anche uno svuotamento delle etiche prodotte in ambito non religioso. Così oggi ci troviamo in una stagione che, in riferimento all’etica, presenta tratti paradossali: da un lato, con l’esaurirsi della spinta propulsiva delle ideologie messianiche secolarizzate, si constata una crisi delle etiche cosiddette “laiche”, d’altro lato assistiamo a un’emergenza sempre più chiara e solida di etiche connesse a una confessione di fede le quali, tuttavia, proprio per questo non possono aspirare, in una società multireligiosa e multiculturale come l’attuale, a una pretesa “universalità”.
Ne consegue la percezione sempre più profonda nella società odierna di un’incapacità a elaborare valori fondamentali comuni. Si pensi, esempio quanto mai all’ordine del giorno, agli interrogativi sollevati dalle nuove frontiere della ricerca scientifica. Il pluralismo, infatti, è elemento indispensabile per una democrazia aderente alla libertà e allo stato di diritto, elemento che pone l’accento sulla molteplicità, la diversità, la complessità, la concorrenza e la ricchezza di ciò che è offerto per la scelta di ciascuno, ma che è per contro impotente a produrre l’unità della convivenza civile. Il rischio del pluralismo è il relativismo, l’indifferenza, il trasformarsi in una sorta di indifferentismo che non consente di trovare princìpi comuni, elementi di fondamento per un progetto condiviso di polis, per una storia da costruire insieme.
Sorge allora la domanda se sia ipotizzabile una “etica comunitaria” condivisibile da uomini e donne nel pluralismo di fedi e di culture. Da alcuni anni in tutta Europa, soprattutto dov’è ancora significativamente presente la confessione cattolica, si è avviato questo dibattito sulla possibilità di un’etica comune con i non cristiani e ci si è chiesti se sia possibile un’etica laica o, meglio, diverse etiche laiche. Però, non appena ci si addentra a discuterne i contenuti, riaffiorano subito rigidi schieramenti “confessionali” che la dicono lunga sulla diffusa impreparazione a condurre un dialogo franco e autentico. Quando gli stessi cristiani si arroccano su alcune puntuali convinzioni derivate dal loro patrimonio di fede e le assolutizzano, rischiano di dimenticare che per la grande tradizione cristiana l’esistenza umana trova il suo valore proprio nella relazione con gli altri uomini: la vita è relazione, sicché l’essere umano è tale quando ha davanti a sé un “tu” che lo rimanda al dialogo, alla comunione intesa come solidarietà e partecipazione. Il primo principio etico è l’alterità che, per i cristiani, conosce queste declinazioni: io e il mio prossimo (coloro con i quali vivo in stretto contatto quotidiano), io e gli altri (quanti condividono con me la storia, la terra, il tempo), io e, tra gli altri, gli ultimi (quali che siano le condizioni in cui si manifesta e i nomi che riceve questo essere ultimi). Del resto, se per un credente nel Dio rivelato nella Bibbia l’uomo è a immagine di Dio, allora l’altro, il diverso, lo straniero è in realtà parte di me, è costitutivo di me stesso e della mia identità: io non sono senza l’altro, così simile e così diverso da me.
Né va dimenticato che per gli stessi cristiani, e da sempre, l’etica è elaborata anche a partire dalla storia. Il vangelo, infatti, ispira sì l’agire storico dei cristiani, ma è nella stessa storia che diviene comprensibile o meno. L’ethos non è dato una volta per sempre, non è calato dall’alto né normativamente contenuto nei libri, ma è costantemente elaborato nella storia, nel cammino fatto accanto e assieme ad altri uomini. Basterebbe una lettura non fondamentalista della Bibbia per rendersi conto, per esempio, dell’apporto dell’etica egiziana e mesopotamica alla sapienza di Israele, oppure dell’influenza dell’ethos greco visibile in diversi passi degli scritti di san Paolo. Sì, l’etica è esperienza e dono: per questo occorre che le religioni – soprattutto quelle monoteistiche, maggiormente tentate dall’esclusivismo e dall’aggressività – elaborino un’etica comune con chi è presente accanto a loro nella polis, nello spazio sociale condiviso.
Certo, questa elaborazione comune richiederà a tutti i soggetti di abbandonare la sterile retorica attorno al dialogo e di affrontare invece con realismo i rischi e le difficoltà che ogni dialogo autentico comporta. Richiederà la consapevolezza che senza disponibilità all’accoglienza dell’altro non si potrà mai avere costruzione comune, ma solo contrapposizione di barricate tante più fragili quanto più erette “contro” un interlocutore cui si è negato ascolto. Richiederà di privilegiare il rispetto per le minoranze e i loro diritti, non a scapito bensì a solido fondamento dell’affermazione della volontà della maggioranza. L’elaborazione di un’etica condivisa richiederà cioè l’accettazione preliminare di una volontà di percorrere insieme un preciso cammino nella storia: e accettare questo significa assumerne anche i rischi, le empasses, le contraddizioni che inevitabilmente contrassegnano un confronto di tale spessore e portata: richiederà insomma quella capacità di “rispondere” di se stessi e degli altri che ha nome responsabilità.
André Malraux ha scritto che il XX secolo ha rappresentato la scoperta dei demoni che sono in noi, delle profondità oscure ed enigmatiche che ci abitano. La dura scoperta di essere “stranieri a noi stessi”, che è una delle acquisizioni ereditate dal secolo da poco concluso, la scoperta dei limiti della razionalità e della fede stessa – entrambe incapaci di rendere conto pienamente dell’uomo e del mondo nel loro restare permeati da una dimensione di tenebra, di enigma – dovrebbe inculcare quell’umiltà che è base di partenza di un’etica veramente consensuale. Sprovvisti di certezze e sicurezze assolute, noi tutti, laici e credenti, forse veniamo preservati dall’arroganza e possiamo aprirci all’incontro sul terreno arduo ma affascinante dell’umano.
Enzo Bianchi