Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

La fede non è la medicina dell’io

26/02/2005 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2005,

La fede non è la medicina dell’io

La Stampa

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26 febbraio 2005

Da più parti, all’interno come all’esterno della chiesa, ci si interroga con una certa ricorrenza su dove stia andando il cattolicesimo oggi e c’è chi rileva come tratto saliente dell’attuale stagione un divorzio tra fede cattolica e spiritualità, tra devozione e morale. È una sorta di schizofrenia nella vita cristiana, una difficoltà di unificazione della vita del credente una separazione di ciò che dovrebbe essere unito e fare parte dell’unica sequela di Cristo da parte del credente: divisione che riguarda innanzitutto coloro che si ritengono e si proclamano cristiani impegnati e vengono percepiti come dotati di una certa rappresentatività della “chiesa”. Non credo si tratti di una patologia radicalmente nuova, né vedo in essa una deriva spiritualistica che azzererebbe totalmente ogni rilevanza dell’impatto concreto della parola di Dio nella vita del cristiano. Ritengo però che in questa stagione segnata dal ritorno non di Dio ma del sacro, del “religioso”, la spiritualità non solo di fatto si separi dalla morale, dal comportamento quotidiano, ma rischi di non essere più una spiritualità autenticamente cristiana, ovvero una vita secondo lo Spirito santo vissuta sulle orme di Cristo: vita cristiana, infatti, è quella vita principiata da Cristo, vissuta da lui come essere umano, radicalmente uomo come noi.

 

Certo è avvenuta una rivoluzione copernicana della coscienza religiosa perché con l’avvento dell’antropologia l’uomo non si comprende più a partire dall’essere, l’essere eternamente presente in un universo immutabile, ma a partire dal suo “diventare uomo”, dal suo percorso storico personale. È in questo orizzonte che è avvenuto un mutamento del rapporto tra credente, fede e istituzione religiosa con inevitabili ricadute anche nella società civile. Il cristiano di questo tempo ultra-moderno, vivendo tra crisi delle istituzioni, pluralismo e deregulationdel religioso, è tentato di vedere nella chiesa una “riserva” di credenze e di servizi religiosi cui ricorrere in una libera scelta individuale. Non è più la religione che propone una fede e una morale, ma sono i singoli che chiedono alla religione ciò di cui hanno bisogno: i fedeli, sempre meno “praticanti”, sono sempre più “infedeli” rispetto alla chiesa. Questo individualismo religioso non significa abbandono del sentimento di appartenenza a una religione (tuttora la stragrande maggioranza degli italiani si dichiara cattolica), ma sia quelli che sono “nel seno della chiesa”, sia quelli che sono fuori vivono una dislocazione tra fede, morale, appartenenza, pratica e conformità: si crede senza appartenere alla chiesa, ma ci si dice appartenenti alla religione cattolica senza credere. È paradossale, ma oggi è questo il divorzio! Le appartenenze sono plurime e non si avverte la contraddizione di appartenere culturalmente al cristianesimo senza appartenervi realmente. La religione è scissa in molte dimensioni che non coabitano tra di loro perché le parti del sistema si sono disgregate, come avvertiva profeticamente il teologo Michel de Certeau diversi anni fa.

 

È in tale contesto che è diventato possibile l’ascolto, l’applauso, l’ammirazione, la commozione per i “simboli” religiosi, siano essi persone carismatiche o grandi eventi, da parte di quelli che non sono mai disponibili né disposti ad assumere e a realizzare quotidianamente ciò che viene richiesto. The singer, not the song: il cantante è applaudito, ma le parole della canzone non sono ascoltate né tanto meno messe in pratica! Anche questa non è una condizione nuova, se già il profeta Ezechiele la denunciava nel VI secolo a.C.: “Così diceva il Signore al profeta: Tutti parlano di te, tutti vogliono venire a sentire i tuoi discorsi e accorrono come folle: amano le tue parole ma non le mettono in pratica” (Ezechielecap. 33). Oggi, se mai, ci si è attrezzati meglio nell’invocare una giustificazione per questo comportamento: alla logica dell’obbedienza si sarebbe sostituita la logica della responsabilità. Per i credenti che hanno “fede popolare”, come si ama dire oggi, e per i militanti, impegnati in un cammino di forte coinvolgimento, la fede è vista come essenzialmente personale: l’importante è che aiuti a vivere meglio, che faccia crescere, che contribuisca alla ricerca della felicità. E così si finisce per misurare anche la fede in base a quello che apporta: benessere, armonia, guarigione… Sì, perché il nuovo nome della salvezza è il compimento e la cura di sé, è lo star bene con sé e con gli altri. In questa deriva, la fede deve contrastare la sofferenza, impedire qualsiasi dolore e fatica anziché assumerli nel dare forma alla propria esistenza.

 

Può sorprendere, ma praticamente nessuno sembra ravvisare il carattere narcisistico di questa deriva, la frantumazione di ciò che è comunitario, sociale… Tutto è misurato sulla capacità di condurre alla realizzazione di sé e, in questo, non si teme né il soggettivismo, né il ripiegamento su di sé. Pare non sorprendere né interpellare nessuno il fatto che ci sono autori spirituali cristiani che hanno pubblicato con successo un congruo numero di libretti del tipo: “Come essere in amicizia con se stessi”, “Non farti del male!”, “Come vincere nella sconfitta”, “Il cielo comincia in te”… Bastano i titoli per dire l’invito alfai da te, al bricolage spirituale: è la declinazione della salvezza come stare bene con se stessi, fuga da ciò che costa caro, da quanto porta con sé fatica e sacrificio.

 

Ci dovremmo interrogare anche sulle cause che hanno permesso al cristianesimo di finire asservito al benessere dell’anima del singolo: forse in radice e in origine vi era una intuizione e un bisogno giusto di recuperare unità nella vita di fede, di non lasciare fuori delle parti di sé nella vita guidata dallo Spirito; forse c’era l’esigenza di integrare corpo e psiche nella sequela di Cristo. Ma in questa deriva della fede ridotta a ricerca di benessere mi pare di cogliere un atteggiamento nuovo, una contrapposizione inedita tra spiritualità e fede. Tutti sono disposti a dirsi in ricerca spirituale, cultori dello spirituale, ma molti meno sono disposti a dirsi credenti in Gesù Cristo: la fede implicascelta, quindi assunzione del rischio, rinuncia, condivisione; questo “spirituale” invece è pervasivo e vago, disimpegnato, dà corda all’individualismo, all’illusione di onnipotenza…

 

È un quadro che ha conseguenze di non piccola portata per la vita interna della chiesa, per la sua pastorale, la sua catechesi, la sua espressione liturgica, ma credo che ponga interrogativi seri anche all’insieme della società, alla nostra convivenza civile. Non è che dietro l’individualismo imperante, la riduzione individualistica anche del “fatto religioso” (“si sceglie”, non “si riceve” la religione), dietro la scissione tra vita e fede, tra fede e celebrazione della fede, vi sia la mancanza di ciò senza cui non c’è né teologia né vita spirituale: ovvero unacomunità? Non credo che basti denunciare le aporie e le distanze tra fede e morale, tra fede e storia, prassi, società, senza ricordare la qualità del soggetto comunitario che dà senso alla morale: la comunità cristiana. Il permanere della testimonianza cristiana in una società come quella che si va configurando nei nostri paesi, infatti, dipende dal vivere la comunità: senza vissuto della realtà comunitaria della chiesa, questa è destinata a diventare un movimento tra i tanti e la fede si riduce a riferimento personale di singoli uomini e donne a un certo Gesù di Nazaret. Perché la salvezza che il cristianesimo vuole annunciare non è un intimistico star bene con se stessi ma è una realtà destinata a tutti, collocata dentro la storia, inserita in una dimensione comunitaria.

 

Così, per quanto paradossale possa apparire, a livello sociale non la visibilità, non il clamoroso, non l’efficienza, non l’evidente sono i luoghi di manifestazione dell’essenza della fede cristiana, ma il segreto del cuore e una prassi storica quotidiana spesso nascosta e di poca risonanza. Sì, il contributo cristiano a una società più vivibile non verrà da ripiegamenti su se stessi né da dispiegamento di forze di pressione ma, oggi come al sorgere del cristianesimo, dalla capacità di mostrare una differenza abitata dal senso.

 

Enzo Bianchi