17 luglio 2004
Da decenni ormai vi è anche in Italia una variegata presenza di immigrati musulmani, anche se a lungo l’immaginario popolare li ha considerati tutti “marocchini”, eppure sembra che di questa presenza e dei problemi che essa pone alla nostra società ci si sia accorti solo a partire dall’11 settembre. E pensare che già alla fine degli anni ’50 - ero all’epoca un giovane militante in politica – vi era un serio impegno di ricerca che guardava non solo verso l’unità europea, ma anche al Mediterraneo, al complesso rapporto tra l’Europa e quel mondo arabo che allora stava emergendo sulla scena internazionale come soggetto politico autonomo nello sgretolarsi della stagione coloniale.
Anni di immigrazione dai paesi musulmani hanno prodotto in Italia, come già è avvenuto in altri paesi d’Europa, reazioni in costante oscillazione tra gli estremi di un’ingenua generosità che sostiene un’incondizionata apertura delle frontiere e una rigida chiusura che si rifiuta di vedere il problema o che pretende di risolverlo con la forza. Così non si riesce ad avviare una ricerca seria e attenta sul fenomeno, una riflessione da parte dell’insieme della società sui nodi e gli sviluppi che questa presenza “altra” in mezzo a noi comporta e richiede: si tratta non tanto di prevedere il futuro ma di prepararlo. Gli interrogativi urgenti che la situazione pone richiedono innanzitutto l’onestà di ammetterli e la volontà di affrontarli, condizioni indispensabili per cercare poi vie di soluzione. La compresenza di cittadini italiani e di immigrati quali cambiamenti produce negli uni e negli altri? Come avviene l’incontro delle differenze? Come fronteggiare paure e rifiuti verso una multiculturalità che molti vedono avanzare in modo incontrollato? E ancora, come credenti e istituzioni laiche affrontano la novità di una presenza religiosa diversa che appare sì come minoranza, ma corposa e manifesta, non più esile come quelle finora conosciute di ebrei e protestanti, peraltro appartenenti alla stessa tradizione scritturistica?
Certo non è facile per una società monolitica come la nostra accettare l’irrompere di questa diversità religiosa e culturale e la “cronaca” di questo incontro-scontro ce lo ricorda ogni giorno: talora è questione del velo islamico, talaltra della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, oppure della costruzione di nuove moschee, o ancora della costituzione di classi composte unicamente da allievi e allieve musulmane… I luoghi di frizione e di conflitto possono solo aumentare se si continua a vivere nell’assenza di un progetto che cerchi di individuare una società sì multietnica e multiculturale, ma anche capace di un confronto e di un dialogo tali da non mortificare le diversità ma anzi di potenziarle permettendo loro di esprimersi nella rappacificazione e in una cittadinanza comune.
Per questo va innanzitutto affermato un no netto e definitivo all’assimiliazioneche vorrebbe rendere gli immigrati simili a noi, negando le differenze. È la tentazione più diffusa tra quella fetta di opinione pubblica che alcuni amano definire “la gente”: “gli immigrati – dicono costoro – sono venuti a casa nostra, se non gli va bene vivere come tutti gli altri, tornino a casa loro”. È chiaro che così facendo non si giunge a nessuna cittadinanza comune, ma si maschera di attaccamento alle tradizioni un rifiuto dello straniero e della differenza che questi comporta.
Un altro atteggiamento è quello di una relativa tolleranza che non nega l’esistenza degli immigrati né le differenze, ma che auspica che ciascuno rimanga quello che è. Quindi,inserimentodi chi è diverso, ma in una giustapposizione che impedisce la conoscenza reciproca e l’incontro: è la logica del ghetto, a volte accolta favorevolmente anche da chi nel ghetto viene confinato. Così, dietro una maschera di tolleranza si cela un misconoscimento dell’altro, del suo essere altro “per me”, mentre ciascuno di noi non può mai essere se stessosenza l’altro.
Il cammino da intraprendere dovrebbe allora essere quello dell’integrazione: questa riconosce e permette la differenza, ma chiede che sia vissuta in un rapporto di alterità, di scambio, in una logica di parità e di eguaglianza che porta ciascuna delle parti a cambiamenti fecondi per l’intera collettività. L’integrazione, infatti, non solo permette una crescita, una partecipazione attiva alla vita sociale, ma suscita convergenze portatrici di coesione e postula un futuro comune in una società comune. Per questo l’integrazione deve delineare condizioni e percorsi per sfociare nella “cittadinanza” per gli immigrati, situazione in cui è possibile una reale e piena partecipazione alla vita della poliscon il riconoscimento di quei diritti e doveri che sono comuni, appunto, a tutti i cittadini. Ora, questo itinerario verso la concittadinanzanon passa solo attraverso riconoscimenti giuridici, ma deve essere intessuto giorno dopo giorno, in uno scambio reciproco tra nativi e immigrati.
L’incontro con lo straniero, con chi ci è estraneo non è automatico: riconoscere l’altro nella sua singolarità significa non solo riconoscerne la dignità, ma anche accettarne e rispettarne la libertà. Occorre fargli spazio senza da un lato obbligarlo a ripudiare ciò che porta con sé e lo definisce – cultura, morale, religione… – e, d’altro canto, senza abdicare alla propria cultura; si tratta di accogliere l’altro senza commisurarlo a se stessi, assumendo il rischio di mettere in gioco la propria identità e confrontarla con quella dell’altro. Solo così si può accendere il dialogo e fare l’esperienza della conoscenza e della comprensione reciproca: avventura straordinaria, in cui cadono le false immagini che ci eravamo fatti dell’altro, vengono smontate le caricature e tolte le maschere permettendo all’altro di definirsi e di porsi di fronte a noi nella sua verità.
A questo punto sorge sovente un’obiezione, sollevata da alcuni cristiani, ma soprattutto da laici paladini dei cristiani che, ogni volta che si parla di diritti dei musulmani, invocano il principio della reciprocità: “Noi lasciamo che costruiscano le loro moschee accanto alle nostre chiese – osservano questi zelanti difensori che magari in chiesa non mettono mai piede – ma nei loro paesi non è consentito costruire chiese…”. Ma proprio chi non affievolisce la propria fede cristiana, chi resta saldo nel messaggio evangelico ricevuto, sa che lo statuto del cristianesimo è sentirsi responsabili dell’umanità senza pretendere reciprocità alcuna, perché così si è comportato con l’umanità il Dio della Bibbia che ha avuto una relazione asimmetrica con Israele, così si è comportato Cristo con tutti coloro che ha avvicinato e con la sua chiesa, così devono comportarsi i cristiani con chi non condivide la loro fede. I cristiani non dialogano perché afflitti e contagiati dal relativismo trionfante, ma perché il dialogo fa parte del loro statuto costitutivo: farsi prossimo dell’altro, ascoltare l’altro, fino a farsi servo dell’altro.
Sì, non vi è altra via alla convivenza civile che quella segnata da pace e da rispetto reciproco e da una convergenza di sentimenti riguardo alla vita sociale. E qui occorre quella responsabilità che, come ricorda Levinas, fin dal suo nascere è responsabilità per l’altro: impresa non semplice perché richiede un rapporto disinteressato in cui appare la gratuitàe il non cercare il proprio interesse particolare bensì quello comune. Sono atteggiamenti che non si improvvisano: richiedono vigilanza, attenta riflessione, disponibilità a cambiare, saldezza di convinzioni. Solo così si potranno scongiurare ghettizzazioni e contrapposizioni e ci si potrà avviare, insieme, verso una società e un mondo più abitabili.
Enzo Bianchi