22 novembre 2003
Ancora morti, ancora sangue a Istanbul, solo pochi giorni dopo le stragi alle sinagoghe, ancora follemente smentita la folle illusione di un mondo più sicuro a colpi di bombardamenti. Sì, i giorni del nuovo secolo appaiono giorni cattivi, sempre più cattivi. Il mondo sembra caduto in balia del male che fa le sue apocalissi con ritmo crescente, sicché la morte sembra dominare attraverso la guerra, il terrorismo, le stragi che fanno dimenticare anche la tragica quotidianità di altre forze mortifere, come le carestie e le epidemie. Di fronte a tutto questo pare regnare soltanto la confusione, l’irrazionale desiderio di risposte altrettanto mortifere, la mancanza di prospettive architettoniche della polis, l’incapacità della politica a mostrarsi efficace. Ora, le tante sofferenze patite sapranno aprire una via alle domande vere, quelle che producono sapienza? Saranno nuovamente ritenuti decisivi alcuni valori condivisi in un umanesimo che trascende culture e religioni?
Certo, chi come noi si era dichiarato e battuto contro questa guerra in Iraq e si era fatto eco della voce di Giovanni Paolo II nell’implorare la ricerca di altre vie di dissuasione e di pace, temendo l’inizio di una guerra senza fine e una crescita esponenziale del terrorismo, non solo non si sente esente da queste ore di dolore, ma neppure pretende di avere una “ragione contro” altri: ancora una volta sperimentiamo tragicamente che la guerra è sempre una sconfitta per tutti. Alcune domande risuonano allora per tutti noi: cosa facciamo per spegnere il terrorismo, cosa facciamo per fermare il conflitto tra israeliani e palestinesi, cosa facciamo perché i popoli arabi del medio-oriente non sentano la presenza occidentale in Afghanistan, in Iraq come occupazione delle loro terre da parte del potere unico mondiale? E ancora, noi italiani siamo in Iraq come belligeranti o in un’azione di carattere esclusivamente umanitario? E in questo secondo caso, essa è possibile nelle concrete situazioni attuali? Non è proprio possibile percorrere vie di dialogo e di confronto e dobbiamo rassegnarci all’odio che genera odio e alimenta la spirale perversa della vendetta?
Proviamo a meditare, nonostante il profondo turbamento che hanno suscitato in noi le epifanie di morte della settimana scorsa. Tutti abbiamo pianto le vittime dell’attacco alla base di Nassiriya, militari e civili italiani e iracheni, tutti siamo convinti che sono state vittime di un terrorismo che non discerne quale tipo di presenza avessero nel paese o che – forse, come dimostrerebbero gli attacchi precedenti alle sedi ONU e della Croce Rossa – la discerne fin troppo bene e non la sopporta. Secondo la motivazione dell’invio delle truppe votata dal Parlamento e conformemente alla nostra Costituzione, la loro missione era di carattere esclusivamente umanitario. Ora, nel piangere le vittime non dobbiamo cedere alla tentazione di fronteggiare il terrorismo accettandone la logica e rispondendo con la guerra e la violenza.
Cerchiamo invece di cogliere la saggezza di alcune parole risuonate in questi giorni. Il cardinale Segretario di Stato Angelo Sodano ha dichiarato che “al terrorismo, sempre inumano, si deve rispondere con il dialogo, con la fraternità”, che soli possono isolarlo e privarlo del respiro vitale, e che “la legittima difesa, sempre ammessa dalla chiesa, deve essere però sempre proporzionale, ultima scelta, compiuta secondo i principi del diritto internazionale”. Indubbiamente la cupa prospettiva dello scontro di civiltà – che grazie all’azione del papa e di tutte le chiese cristiane non è stata possibile innescare nell’attacco militare contro l’Iraq trasformandolo in una crociata della cristianità contro l’Islam – può tuttavia farsi strada nella mente della gente comune dopo i fatti di Nassiriya, con il rischio che cresca un’ostilità verso i musulmani presenti nel nostro paese.
Oggi è l’ultimo giorno festivo del ramadan. L’arcivescovo Michael Fitzgerald, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, come ogni anno ha inviato un messaggio ai credenti nel Dio unico, misericordioso e compassionevole per trasmettere loro la vicinanza dei cristiani in questa celebrazione della confessione della loro fede. Da qualche anno, inoltre, risuona anche in Italia l’invito a una giornata – quella di chiusura del ramadan, appunto – per il dialogo cristiano-islamico.
Certo, questo dialogo ancora allo stadio iniziale, all’età della pietra, è minacciato da eventi e contraddizioni poste da fondamentalisti presenti nell’Islam e da intolleranza presente anche nelle comunità cristiane. Non potrebbe allora la giornata di oggi essere l’occasione per affermare nel tessuto della nostra vita quotidiana la volontà di confronto con l’Islam attraverso gesti molto semplici, come la visita a una moschea, l’invito di un musulmano alla propria tavola, la partecipazione al suo momento di festa? Piccoli gesti, certo, privi di visibilità gridata, eppure così capaci di aiutare la convivenza attraverso la conoscenza reciproca, di far cadere grossolane riserve e pericolosi pregiudizi attraverso la solidarietà nella gioia e nel dolore: non si dimentichi che anche i musulmani piangono le loro vittime negli attentati terroristici e nelle operazioni di guerra, che anche molti di loro sono lontani da casa e dagli affetti, sono in ansia per la sorte dei familiari lasciati in paesi dove la vita è un bottino ogni giorno a rischio.
E questa solidarietà, questo essere e sentirsi membra dell’unica comunità umana come può dimenticare le stragi alle sinagoghe di Istanbul? Il terrorismo ha colpito degli ebrei solo per il loro essere tali, caricando così ancora una volta di orrenda e detestabile portata l’antisemitismo: è stata presa di mira gente inerme che si recava alla preghiera nel giorno dello shabbat, uomini, donne e bambini che non erano neppure cittadini di un paese in guerra contro i suoi vicini, persone magari anche in disaccordo con la politica dell’attuale governo israeliano. Ormai, ovunque gli ebrei si radunino come credenti nelle sinagoghe del mondo sono costretti a temere di essere colpiti a morte solo perché si professano appartenenti a quella realtà che non è né razza, né nazione, né religione ma che sente di doversi chiamare Israele pur nel ricco mosaico della sua compagine.
Di fronte a questa nuova forma di comparsa dell’antisemitismo attraverso un antigiudaismo islamico è dovere di tutti noi, credenti e non credenti, subito, senza esitazioni, mostrare la nostra solidarietà, la nostra volontà di difesa di coloro che in tutta la storia hanno conosciuto odio e persecuzione solo in nome della loro vissuta appartenenza a una speranza! Giovanni Paolo II ha esortato affinché “mai più l’appartenenza religiosa sia origine di conflitti che insanguinano e sfigurano l’umanità!”, ed è in questa prospettiva che i cristiani devono esprimere oggi agli ebrei che conoscono, che incontrano, che sanno tali, la loro apprensione e la loro solidarietà. In Italia, personaggi autorevoli come Gad Lerner e Stefano Levi Della Torre hanno invitato i cristiani a recarsi sabato a visitare una sinagoga: è una richiesta di condivisione in un momento particolarmente cupo, e vi sono molti modi per accoglierla, anche qualora non ci si possa recare fisicamente in una sinagoga, molte e affidate alle nostra sensibilità le possibilità di testimoniare la condanna di ogni antisemitismo e di mostrare la propria vicinanza.
Come per le iniziative di dialogo islamo-cristiano, non si tratta di innescare occasionali processioni verso un edificio di culto, bensì di porre nel quotidiano della polis– là dove ogni essere umano vive le proprie speranze e i propri timori, là dove sperimenta i propri affetti e le proprie angosce, là dove ripone le attese proprie e della generazione che verrà – delle pietre miliari per un cammino nel dialogo e nella pace.
Enzo Bianchi