31 agosto 2003
Nel luglio del 1962 arrivavo a Parigi per perfezionare all’Alliance Française il mio francese scolastico. In realtà, per me Parigi era la città per eccellenza, presente nel mio immaginario di ragazzo che era stato abituato a frequentare la letteratura francese. Per noi piemontesi, la Francia è una realtà amata, la cui cultura non ci è estranea: anzi, è il pozzo del vicino cui si va ad attingere un’acqua migliore di quella che si ha nel proprio pozzo. Parigi si presentava come una città accogliente, luminosa con i suoi grandi spazi aperti, con larive gauchee il quartiere latino brulicanti di vita, di colori, di volti umani diversissimi: un fascino senza equivalente in Italia! Avevo trovato alloggio in rue Saint Martin e uscendo di casa incrociavo quella varietà di volti dai quali ero attratto, quasi sedotto: volti che sparivano alle mie spalle con suoni e voci che evocavano lingue e mondi diversi e sconosciuti. Certo, dovevo frequentare con assiduità i corsi di francese ma poi, a sera, c’era la cena consumata negli affollati ristoranti greci o balcani – come dimenticare Les Balkanesdi Saint Germain des Près? – dove potevo incontrare giovani come me, poveri di soldi e ricchi di sogni, con i quali avviare una conversazione che proseguiva poi per strada, girando per i tenebrosi locali del quartiere latino, salendo a Place du Tertre a Montmartre, districandoci per quelle viuzze dove facevano la loro comparsa suonatori, cantanti, ritrattisti: un’umanità variegata, in cerca di qualche spicciolo, sì, ma capace di creare con quattro note e due tratti di matita un’atmosfera ricca di vita.
A volte si andava in compagnia ad ascoltare dal vivo, nel cabaret, quei cantanti di cui erano giunti i primi dischi anche in Italia: George Brassens, naturalmente, ma soprattutto Jacques Brel, allora nel pieno del suo successo, considerato non solo un cantautore ma un vero poeta. È difficile descrivere oggi quella stagione in cui il giradischi era ancora strumento raro, prezioso, capace creare attorno a sé uno “spazio” nuovo: nell’angolo di una mansarda bastava un tappeto, qualche cuscino, una bottiglia di calvados o dell’introvabile assenzio e assieme alla musica delle canzoni si sprigionavano appassionate conversazioni, si dipanavano mondi possibili, si intrecciavano vicende improbabili. Giunto a Parigi una decina d’anni prima dal Brabante belga, Brel era ormai un artista affermato, circondato da una stima e una considerazione straordinarie: dalle sue canzoni si restava non solo sedotti, ma feriti perché sembravano accompagnare i sentimenti e dare parola a ciò che le conversazioni si impedivano di dire, sapevano nutrire la tenerezza dell’amicizia e arricchire quelle nottate di messaggi luminosi. “Quand on n’a que l’amour…, quando si ha solo l’amore da offrire e da condividere nel grande spazio che è il nostro amore… Quando si ha solo l’amore per vivere le nostre promesse e non si hanno altre ricchezze… Quando si ha solo l’amore da offrire in preghiera per i mali della terra… Quando si ha solo l’amore da offrire a quelli la cui unica lotta è cercare il giorno… Allora, senza aver null’altro che la forza dell’amore, noi avremo nelle nostre mani, cari amici, il mondo intero!”.
Ma la canzone più amata, più ascoltata e più cantata accompagnando con la mia voce le note che uscivano dal giradischi è stata “Ne me quitte pas”, che Gino Paoli tradusse in italiano già nel 1962. Tornato a casa da Parigi, trovai il testo di Brel anche in italiano, anzi, la traduzione mi parve persino avere qualche variante più evocativa, più artistica: è la canzone che vorrebbe fermare il tempo dell’amore, sono parole che hanno i sentimenti e le immagini del Cantico dei Cantici, è la voce che canta contro ogni paura di separazione. L’amore, si sa, vorrebbe sempre il restare qui, il restare insieme anche senza parole perché nell’amore tutto il corpo e tutti i sensi si fanno eloquenti più della parola. “Non andare via, non andare via… Puoi dimenticare tutto quello che se n’è andato già, tutti i malintesi e tutti i perché che uccidevano la felicità… Non andare via perché io ti offrirò perle di pioggia venute da dove non piove mai… Aprirò la terra giù fino nel fondo per coprirti d’oro, d’oro e di luce”. Chi, nell’amore, non si è sentito chiamare “re” e non ha chiamato “regina” l’amata? Sì, dove l’amore è re, dove l’amore è legge, gli amanti si incoronano con un oro molto più prezioso di quello che orna la corona, perché è un oro estratto dalla profondità di tutto l’essere. “Non andare via, perché io inventerò per te le parole pazze che tu capirai”: parole nuove, pazze ma non insensate, parole che tentano di dire l’indicibile degli amanti che vedono il fuoco e nel fuoco ardono. Come poter dire la nostalgia, il desiderio dell’amante se non evocando la storia di un re malato e alla fine morto perché non aveva mai visto l’amata. E poi quelle parole culmine della canzone, parole che celebrano il rinnovamento dell’amore e impediscono ogni eventuale usura, ogni possibile stanchezza: “Nel vulcano spento che credevi morto (l’ancien vulcan qu’on croyait trop vieux) molte volte il fuoco è rinato ancora!”. È un fuoco che rinasce ancora anche in chi è anziano, è un vulcano sempre vivo anche se antico e ritenuto spento, perciò “non andare via, ne me quitte pas!”…
Poi, all’improvviso, Jacques Brel lascia definitivamente la scena. Scomparsa enigmatica: non ci sono più sue canzoni, solo un grande silenzio attorno a lui e su di lui. Ormai consacrato come poeta, in una decina d’anni sembra aver dato tutto. È stato uno di “quelli che hanno avuto la fortuna di imparare fin dalla loro infanzia tutto ciò che loro non serviva”, come aveva cantato?
Ma a vent’anni non si è capaci di sentire la perdita di un cantante: ci si nutre di quello che ha dato e si cerca di ritrovarlo in altre voci. Negli anni immediatamente successivi appare sulle scene un altro cantautore, altrettanto seducente, più semplice, forse, ma non meno intrigante per i sentimenti di un giovane come me che in estate e in ogni occasione possibile continua a frequentare la Francia, e Parigi in particolare: è Georges Moustaki. Un nome che è un debito pagato a Brassens, una faccia da greco scavata dal sole e dal mare, due occhi penetranti e una barba che quando spunta è già brizzolata, una chitarra e una voce calda. Nelle sue canzoni la solitudine, l’amicizia, l’amore sono cantati con una novità di accenti che colpisce la mia generazione e la seduce. Moustaki è un mediterraneo, nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto dove suo padre, Giuseppe Mustacchi, ha un’avviata libreria: nel suo passato e nel suo sangue si mescolano l’Italia, la Grecia e l’Egitto, l’erranza ebraica e la luce unica di Alessandria. Per varie ragioni io amavo, e amo tuttora, il Mediterraneo, dove la luce merita di essere “venerata” e “gustata”: per questo ho amato Istanbul, Beirut, Alessandria, Atene, città cosmopolite che negli anni cinquanta e ancora agli inizi dei sessanta erano miscrocosmi di razze, lingue, culture in continuo dialogo attraverso il francese. Moustaki ad Alessandria ha gustato le poesie di Seferis, tanto amate anche da me, e nella libreria paterna ha conosciuto quell’atmosfera oggi impensabile di scambio, di confronto, di dialogo tra ebrei, copti, siriani, armeni, greci, italiani, francesi: Alessandria, un vero salotto, non prefabbricato! E con questo bagaglio il diciassettenne Moustaki approda a Parigi (per tanti della mia generazione Parigi è percepita proprio come la città cui si “approda”!) inizia una lunga peripezia in cui cerca di guadagnarsi la vita suonando la chitarra. Anni duri eppur spensierati: nessun successo, ma la possibilità di frequentare Prévert e Vian, Brassens ed Edith Piaf. Lo si trova nei cabaret della rive gauche, poi nel ’68 lo si vede nelle manifestazioni studentesche, ma il successo e la consacrazione definitiva arrivano solo nel 1969 con “Le méteque”, inno a “quella faccia da straniero” che rivela “un uomo vero”: è lui il “juif errant, le patre grec” con i capelli ai quattro venti e un’aria da sognatore, è lui quel vagabondo che vado ad ascoltare a Bobinoe che poi riascolto per illuminare alcune delle lunghe serate oscure che trascorro solo nell’inverno di Bose… Moustaki canta la solitudine e forse anche per questo diventa l’unico cantautore che mi accompagna: “la solitudine con la quale si dorme, la solitudine che diventa amica, una fedele ombra che non ci lascia mai e va sempre qua e là ai quattro angoli del mondo”. La canzone dice che “non si è mai soli con la propria solitudine”, una solitudine “che non si lascia ripudiare perché mi chiama anche quando io le preferisco un’altra cortigiana”, una solitudine che sarà, nell’ultimo giorno, “l’ultima compagna”…
Sì, posso confessare che ormai il mio noviziato nella vita monastica mi stava portando lontano da un certo mondo, non perché fosse malvagio, ma perché un altro ormai mi attirava con più forza. Ma confesso anche, e con gioia, che l’amicizia e la solitudine – non quella dell’eremita, ma la solitudine di chi si ritira per stare con se stesso e per incontrare meglio gli altri – amate e cantate da Brel e Moustaki sono per me oggi i doni più grandi che ho avuto dalla vita. Ormai ho sessant’anni, non ascolto più canzoni perché non sono più in grado di percepire la bellezza in quelle che si scrivono oggi. Sì, sono cambiato, perché nella vita si muta magari fino a contraddire se stessi e il proprio passato. Ma se ricordo la mia giovinezza, allora Brel e Moustaki non possono essere dimenticati: han dato le parole a ciò che vivevo sovente senza parole, nel semplice stupore della bellezza.
Enzo Bianchi