6 agosto 2003
Forse perché visitiamo regolarmente il Monte Athos da oltre trent’anni e conosciamo personalmente i monaci e l’igumeno di Simonos Petras – che abbiamo anche avuto la gioia di accogliere a Bose lo scorso anno – forse perché a nostra volta viviamo tuttora senza televisione, forse perché il discernimento sul “buon uso delle cose” è un dovere antico come le montagne e i monaci costituiscono da sempre un elemento di controcultura rispetto all’ambiente, anche ecclesiale, circostante, ma sta di fatto che un articolo come quello di Pietro Del Re su Repubblica di lunedì dedicato al temuto ingresso del web (dopo telefoni, elettricità e computer) al Monte Athos mi ha fatto sorridere. Una tradizione millenaria minacciata dalle e-mail? Le strade percorse dai fuoristrada come degenerazione dello spirito? I computer e l’internet come cavallo di Troia che finirà per aprire le porte al “nemico” per eccellenza, le donne? Non credo proprio.
La vita monastica – e quella condotta sulla Santa Montagna dell’ortodossia ha la particolarità di dilatare a un’intera penisola quanto si cerca di vivere in qualsiasi “chiostro” o “deserto”, d’oriente come d’occidente – non vuole essere altro che una memoria evangelica, un segno della “differenza cristiana” posto con parresia e amore al cuore dell’esistenza umana. Per fare questo si serve di alcune “strutture” – le regole e i canoni stabiliti dai padri – che vengono costantemente rilette e reinterpretate perché possano adempiere, nell’oggi che cambia, il loro compito: custodire, ordinare la carità, rendere attuale l’appello a vivere con radicalità il vangelo e le sue esigenze. All’Athos, come a Bose, come in qualsiasi monastero, quando vengono introdotte delle novità, non lo si fa senza prima operare un discernimento comunitario, senza discuterne i rischi potenziali, senza valutare da persone adulte i tempi e i modi più opportuni, senza fissare anche dei limiti, quei limiti che la mentalità dominante, nella sua vertigine di onnipotenza, vorrebbe abolire del tutto.
Allora si può decidere di ignorare l’assordante mole di informazioni che i mass media ci riversano addosso fino a stordirci e confonderci, oppure si può optare per focalizzare la propria attenzione solo su alcune problematiche che assillano l’umanità: l’importante resta non distrarre il proprio cuore dal dialogo con il Signore, portando in esso le gioie e le sofferenze dei nostri fratelli gli uomini; si può decidere di scrivere le lettere con penna e inchiostro, con la macchina da scrivere oppure con il computer: l’importante è vigilare affinché la lettera non uccida mai lo spirito e dallo “sta scritto” emerga quella sete di Dio che abita ogni essere umano; si può pensare di dialogare solo nel faccia a faccia di un incontro personale, oppure accettare il veicolo del telefono o della posta elettronica: l’importante è il contenuto di quello che si comunica, è l’apertura all’altro, l’ascolto di ciò che gli arde nel cuore, l’accoglienza di ciò che lui è, prima ancora di ciò che fa o ciò che chiede.
Sì, non sono certo le nuove tecnologie a minacciare quella vita cristiana radicale che i monaci dell’Athos ricercano con perseveranza. Essa, infatti, come ogni esistenza che si ispiri al Vangelo, conosce da secoli una sola minaccia: il “raffreddarsi della carità” (cf. Mt 24,12). È sull’amore, infatti, che saremo giudicati, monaci e sposati, cattolici e ortodossi, uomini e donne, è sull’amore che verranno misurate le nostre vite, non sulle pagine visitate o meno nell’enorme vetrina virtuale.
Enzo Bianchi