24 marzo 2002
Tra le azioni che il cristiano dovrebbe compiere durante la quaresima per tutto predisporre all’azione della grazia e mostrare segni di conversione c’è anche l’elemosina: termine oggi desueto, poco amato ma che, nel suo significato autentico indica “provare pietà”, “avere nelle proprie viscere sentimenti di amore”. Oggi potremmo renderlo con un’espressione che ne evidenzia un aspetto e nel contempo ne designa l’intenzione cristiana: “condivisione con i più poveri”. Già nell’Antico Testamento i profeti ammonivano che il digiuno diventa davvero autentico e fecondo quando è accompagnato dal “dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i poveri senza casa, vestire chi è nudo” (cf. Is 58,7), ma i cristiani della chiesa primitiva coglievano proprio nella pratica della condivisione la differenza etica cristiana rispetto ai pagani. Non si trattava, infatti, di una pur importante questione di “opere di carità” da svolgere in base a criteri di giustizia umana, ma c’era la consapevolezza che i poveri sono un autentico “luogo teologico” in cui si accede a una rivelazione su Dio: incontrarli, condividere con loro i beni che si hanno per eredità, fortuna o lavoro era percepita come un’esperienza viva di comunione, come possibilità concreta di avere lo stesso cuore di Gesù Cristo, che “da ricco che era si è fatto povero per noi” (2Cor 8,9), di nutrire i suoi stessi sentimenti (cf. Fil 2,5 ss.). Il cristianesimo era, in prima istanza, un modo di vivere nel mondo, e questa terra era concepita come un dono di Dio destinato alla comunione. Allora tra i cristiani erano normali queste riflessioni: “Tuo e mio sono parole prive di fondamento reale”, “la natura ha voluto tutte le cose in comune, per l’uso di tutti: solo l’usurpazione ha fondato il diritto privato”, “la comunità è molto più conveniente all’ordine naturale che non la proprietà”... Ed erano parole, queste, non di cristiani marginali o ereticali, ma di Basilio, di Giovanni Crisostomo, di Ambrogio: parole cioè di vescovi e padri della chiesa, perché tale era la fede pratica della chiesa!
Oggi, quando queste parole vengono citate, appaiono quasi la testimonianza archeologica di un’epoca aurea, ma non interrogano più i credenti, non destano inquietudine. Perfino quanti all’interno della chiesa conducono vita religiosa e cercano di vivere questa reale comunione dei beni nelle loro comunità sembrano oggi essere afoni su questo atteggiamento che, invece, dovrebbe costituire un messaggio performativo. Oggi i tempi sono sfavorevoli ai poveri e alla loro partecipazione alla società del benessere e dell’opulenza regnante nell’emisfero settentrionale del pianeta: anche tra i cristiani queste tematiche non sono più dibattute anzi, qua e là cantano voci che vogliono tranquillizzare le coscienze, negando addirittura qualsiasi nesso tra la nostra opulenza e le povertà del mondo e fornendo alle società ricche delle ragioni per continuare a prosperare senza vergognarsi!
Eppure la sera del giovedì santo, durante la cena del Signore, la chiesa pone due anamnesi, due azioni compiute in ricordo di Gesù che dà la vita per gli altri: l’azione sul pane e sul vino, sacramento dell’altare, e la lavanda dei piedi, il gesto del servo, sacramento del fratello. Due facce del mistero pasquale che deve essere vissuto nella sua pienezza perché il comando di Gesù – “Fate questo in memoria di me... Come ho fatto io, fate anche voi” (Lc 22,19 e Gv 13, 15) – riguarda la memoria del suo amore fino alla fine impresso in entrambi quei segni. Non è operazione facile amare il fratello in modo autentico, non è azione spontanea essere abitati da sentimenti di compassione per i poveri, gli ultimi, eppure, come ci ha assicurato Gesù, noi saremo giudicati su questa prassi quotidiana. Non ci sono ricette univoche e il cristiano non deve essere imprigionato in nessun legalismo, ma la quaresima è l’occasione per riflettere su ciò che si possiede, su quanto è veramente necessario, sui beni che possono essere condivisi con i bisognosi. Non si tratta tanto di compiere alcuni gesti di “carità” che vengono quasi automatici per l’abbondanza di beni nella quale viviamo, ma di porci in verità di fronte a Dio Padre e accanto a quelli che, come noi, sono suoi figli e, dunque, nostri fratelli. Sì, il cristianesimo è esigente e sempre ha evidenziato il nesso tra adesione, sequela del Signore e modo di rapportarsi con i beni di questo mondo. Basilio ricordava che “il mantello preda delle tarme nel tuo armadio non appartiene a te, ma al povero” e Gregorio di Nissa ammoniva che “chi possiede troppo non è fratello ma ladro”!
Del resto, la philautía, l’amore di sé, il trionfo dell’io portano di fatto a non conoscere né l’amore che nasce dalla condivisione e dallo scambio, né la gioia che è più grande nel dare che nel ricevere, né la libertà dalle cose che è essenziale per amare Dio al di sopra di tutto. Non dimentichiamoci che se non esercitiamo la condivisione di ciò che possediamo – come “beni” intellettuali, spirituali, materiali – finiremo per sentire l’altro come antagonista che ci priva di una parte della vita, come minaccia per il nostro libero sviluppo e benessere.
Enzo Bianchi