6 marzo 2002
“Parlare dei monaci vuol dire parlare di una davvero strana categoria di persone, di gente ai margini, perché nel mondo moderno il monaco non ha più un suo posto ben preciso nella società... non appartiene ad alcun establishment: è una persona marginale che deliberatamente si ritira ai margini della società con il proposito di approfondire un’esperienza umana fondamentale”. Con queste parole Thomas Merton iniziava quella che sarebbe stata la sua ultima conferenza, anzi, le ultime parole pronunciate prima di morire folgorato da un ventilatore difettoso. Giramondo figlio di due artisti – “sangue eretico”, come ha voluto definirlo un appassionato saggio di Michael Higgins uscito recentemente da Garzanti – Merton era pienamente consapevole della propria marginalità e non può sorprendere che la sua conversione al cattolicesimo in età adulta sia sfociata quasi immediatamente nella scelta di una vita marginale all’interno stesso della chiesa (e per di più di una chiesa minoritaria negli Stati Uniti): il monachesimo e, all’interno di questo, non un istituto con opere di insegnamento o di presenza attiva nella società, ma l’austera vita di clausura trappista.
La medesima conferenza di Bangkok ci mostra Merton consapevole anche di come questa “marginalità” lo mettesse in profonda sintonia con altre categorie, magari meno rispettate, di marginali: “I monaci, gli hippy, i poeti, sono persone che contano? No, noi siamo deliberatamente irrilevanti. Noi viviamo con quella irrilevanza congenita che è propria di ogni essere umano. L’uomo marginale accetta l’irrilevanza fondamentale della condizione umana, che si manifesta soprattutto con la morte. La persona marginale, il monaco, il profugo, il prigioniero, tutta questa gente vive in presenza della morte, la quale mette in discussione il significato della vita. Questa gente combatte la morte dentro di sé, cercando qualcosa di più profondo della morte; perché c’è qualcosa di più profondo della morte, e il compito del monaco o della persona marginale, della persona meditativa e del poeta è quello di andare al di là della morte anche in questa vita, di andare al di là della dicotomia vita-morte ed essere perciò testimone della vita”. In questo, Merton mise in luce come pochi quel “vivere alternativo” che è il monachesimo, quella capacità di inoculare diastasi di senso nel mondo contemporaneo, di contestare l’insensatezza di tanto “comune buon senso” con la vita stessa, una vita condotta “altrimenti”, di combattere l’idolatria dominante che è disposta a mutare il “feticcio” opera delle proprie mani ma non a rinunciare a rendergli culto sacrificandogli la propria libertà.
Forse è grazie a questa marginalità consapevole che Merton riuscì a parlare al cuore di tanti uomini e donne della sua generazione e di quelle successive. Con più il suo cammino spirituale si indirizzava verso una vita eremitica, con più tesseva contatti e stringeva amicizie con quanti avevano a cuore l’umanità nelle sue sofferenze. In quei primi anni sessanta del secolo scorso non ci fu battaglia civile o dello spirito che non vide Merton accanto ai suoi più sinceri sostenitori: dalla lotta contro gli armamenti nucleari all’opposizione alla guerra in Vietnam, da Dorothy Day e la solidarietà cattolica al mondo operaio a Martin Luther King e alla sua battaglia per l’emancipazione dei neri, da Joan Baez e la freschezza di una musica che parla al cuore a Jacques Maritain e ai nuovi orizzonti che si dischiudevano per la fede con il concilio di papa Giovanni, dal Dalai Lama ai pionieri del dialogo interreligioso.
È questo stare in disparte senza desolidarizzarsi dalla compagnia degli uomini, questo farsi carico delle speranze e delle sofferenze altrui, questo raccogliersi in se stesso per pensare con gli altri che ha fatto di Merton un autentico “contemplativo”, un visionarioe un profeta per il nostro tempo. Non nel senso di chi “prevede il futuro” o ha apparizioni soprannaturali, ma di chi abitua il suo sguardo a contemplare la realtà come Dio la osserva, di chi affina il suo orecchio ad ascoltare ciò che Dio dice all’umanità, di chi non si ferma all’apparenza ma guarda in profondità. Come spiegheremmo altrimenti le parole di questa poesia scritta nel 1947, l’anno in cui aveva emesso i voti solenni nel monastero di Gethsemani:
La luna è più pallida di un’attrice, e ti piange, New York;
cercando di vederti attraverso i ponti a brandelli,
e si china per udire il timbro falso
della tua voce troppo raffinata
i cui canti non s’odono più!
... Come sono state distrutte, come sono crollate,
quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’acciaio,
fuse da quale terrore e da quale miracolo?
Quali fuochi, quali luci hanno smembrato,
nella collera bianca della loro accusa,
quelle torri d’argento e d’acciaio?
... Oh, là dove i tuoi figli, la sera dell’ultima tua domenica,
sparavano gli uni sugli altri all’ombra del Paramount,
le ceneri delle torri distrutte si mescolano ancora alle volute del fumo,
velando le tue esequie nella loro bruma;
e scrivono il tuo epitaffio di braci:
“Questa fu una città
che si vestiva di biglietti di banca
... Era senza cuore come un taxi;
aveva occhi altocoturnati talvolta blu come il gin,
e li inchiodava, ogni giorno della sua vita
sul cuore dei suoi sei milioni di poveri.
Ora è morta nel terrore d’una improvvisa contemplazione,
annegata nelle acque del proprio pozzo avvelenato”
... E siamo pieni di paura, e più muti degli astri riversi
che vanno zoppiconi nelle acque fangose,
più muti della madre luna che, bianca come morte,
vola e fugge per i deserti del Jersey1.
Quando mi sono giunte le tragiche notizie dell’11 settembre scorso, mi è tornata alla mente questa poesia “vecchia” di oltre cinquant’anni: una provocazione e un invito a pensare. Merton non era un apocalittico né un integrato, ma il suo sguardo dioratico sapeva leggere al di là di ciò che si impone perché apparente. Proprio per questo Merton non è molto amato, oggi, neanche nello spazio ecclesiale: sorte comune a tutti gli uomini che hanno un messaggio profetico da comunicare. Eppure, piena umanità, intelligenza vigilante, capacità di resistenza, solitudine e comunicazione assunte e vissute senza lacerazioni hanno fatto di Merton un testimone che si autodefiniva “colpevole” perché risolutamente intenzionato a restare solidale con l’occidente, anche quando sapeva criticarlo e condannarlo.
Enzo Bianchi