20 novembre 2001
Ancora una volta Giovanni Paolo II mostra di essere innanzitutto un cristiano che conosce e vive il primato della fede: di fronte agli eventi mortiferi scatenati dal terrorismo e a una guerra che non può che creare ulteriore angoscia, sofferenza e morte, chiede a tutti i cattolici un giorno di digiuno simultaneo al digiuno dei musulmani e poi un incontro di credenti appartenenti alle diverse religioni in vista di una preghiera per la pace. Giovanni Paolo II chiede dunque gesti da compiersi innanzitutto davanti a Dio, sapendo che la pace viene da lui come dono, che il mondo non può darsi la pace da se stesso e che tuttavia gli uomini devono tutto predisporre per ottenere da Dio questo dono attraverso un impegno coraggioso e paziente. Sì, va ribadito con forza: quello che il papa auspica è innanzitutto un atto di fede davanti a Dio, un’invocazione della Pace, perché il nostro Dio “è un Dio che parla di pace” (Salmo85,9) e Gesù Cristo, da lui inviato nel mondo “è la Pace” (Efesini2,14) ed è perciò chiamato “principe della Pace” (Isaia9,5).
Ma, come ogni gesto del credente davanti a Dio, anche questi voluti dal successore di Pietro hanno un significato per gli uomini, che ora vorremmo cercare di comprendere in modo non superficiale, a partire dalla giornata di digiuno del 14 dicembre. Quel giorno è il venerdì in cui per i musulmani si chiude il mese di digiuno del Ramadan, mentre i cattolici stanno vivendo il tempo dell’Avvento, un tempo forte in cui da sempre la chiesa impegna tutti i cristiani a un’intensificazione della vita spirituale, soprattutto attraverso la preghiera e il digiuno. Vivere quel giorno di digiuno da parte dei cristiani significa mostrare che – con tutta la persona, compreso il corpo – la volontà di porsi in una situazione simile e simultanea a quella dei credenti musulmani, e quindi mostrare a loro e agli uomini tutti una vicinanza e una solidarietà. Chi evoca e vuole “guerre di civiltà”, chi ipotizza “crociate” e guerre di religione viene così smentito con un gesto esistenziale, vissuto ecclesialmente da milioni di cattolici, e non solo con parole e dichiarazioni di qualche singolo. Dio lo si serve e di Dio non ci si deve servire. A Dio il credente si abbandona e non lo abbandona al momento di agire nella storia. I credenti non sono fanatici se fanatismo significa rifiutare l’altro come differente, non sono settari, chiusi e ripiegati sulla propria fede con convinzioni che non ammettono altre e differenti ricerche di Dio. I cristiani sanno che esiste la tentazione di dare un volto perverso al Dio che si confessa, per poterselo accaparrare e così strumentalizzarlo. E sanno anche che a volte hanno ceduto a questa tentazione, con il motto “Gott mitt uns”, con l’iscrizione “In God we trust”; magari sono ancora tentati di farlo in risposta al grido “Allah akbar”. Digiuno invece, per tutta la tradizione cristiana, significa penitenza, segno di una volontà di conversione inscritto e vissuto nella carne provata fino alla fame, e quindi rinuncia al cibo che si sarebbe mangiato per darlo in “elemosina”, stupenda parola – purtroppo oggi svilita – che indica “avere pietà”, “com-muoversi” verso quelli che vivono nel bisogno, in questo caso le vittime della guerra. Questo gesto pubblico, davanti al mondo, indica che i cattolici non solo non sentono i musulmani come nemici, ma sanno compiere azioni concrete di solidarietà con quelli che soffrono, indipendentemente da quale sia la loro fede.
Ma, affinché non ci sia neanche la tentazione sottile di accaparrare la preghiera a Dio vivendola per se stessi e magari contro altri, Giovanni Paolo II ha voluto anche la seconda iniziativa, annunciandola contestualmente alla prima: una preghiera per la pace, una preghiera vissuta gli uni accanto agli altri ad Assisi. Pregare insieme è un’operazione nuova per i cristiani, un’operazione inaugurata dal papa nel 1986 proprio ad Assisi: non si tratta né di sincretismo, né di relativismo religioso, si tratta invece di mettere davanti al Dio unico e vivente, il Dio adorato da ebrei, cristiani e musulmani, l’invocazione della pace ma anche l’impegno a non bestemmiare il Nome di Dio ricorrendo alla violenza in nome suo. Si tratta, di fronte al Dio che “vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1ª Timoteo 2,4), di mettersi in un atteggiamento di ascolto e di invocazione anche con tutti coloro che lo cercano “come a tentoni” in vie religiose che contengono semi della parola di Dio e indicano la presenza dello Spirito santo in tutti gli uomini creati a immagine e somiglianza di Dio. Sarà una confessione nella certezza che Dio non ama che si uccida per lui, che Dio non vuole che si demonizzi il nemico, né che si divinizzi una causa da difendere. Sarà anche un manifestare la propria volontà di servire Dio e di non servirsi di lui, l’occasione per mostrare al mondo che le religioni chiedono di risolvere le controversie non con le armi ma percorrendo la strada della conflittualità non violenta, del dialogo coraggioso e paziente.
Giovanni Paolo II è il papa che sarà ricordato per i suoi “mai più!”, proclamati a nome dei cattolici ricordando le loro contraddizioni al Vangelo, ma anche invocati assieme ad altri credenti che accettano di confessare un Dio Padre di tutti gli uomini, un Dio che ha parole di pace e che vuole per i suoi figli la pace: “Mai più guerre in nome di Dio!”.
Enzo Bianchi