Pubblicato su: Vita Pastorale - Dove va la chiesa - Settembre 2020
di Enzo Bianchi
A partire dal concilio Vaticano II i cristiani sono ritornati a porre al centro della loro prassi e della loro riflessione il fatto che – come titolava un libro di quasi sessant’anni fa – “la chiesa è una comunione”, che la koinonía è la forma costitutiva della chiesa. Il Vaticano II ha inoltre riaffermato con chiarezza che la chiesa locale è la catholica, chiesa di Dio radunata attorno al vescovo successore degli apostoli, principio di comunione tra le differenti componenti ecclesiali e i diversi ministeri mediante i quali è edificato il corpo di Cristo. Si è giunti persino a forgiare l’espressione “ecclesiologia di comunione”, a dire che la chiesa non è, come per secoli si era ritenuto, una piramide gerarchica, bensì una comunione compaginata sinfonicamente dallo Spirito: “tutti quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito santo, formano una sola chiesa e sono tra loro uniti in lui (cf. Ef 4,16)” (Lumen Gentium 49).
Facendosi autorevole interprete del dettato conciliare, Giovanni Paolo II indicava come grande compito per i singoli cristiani e la chiesa intera proprio “la comunione che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della chiesa” (Novo Millennio Ineunte 42). Ciò esige da parte di tutti un impegno contro gli individualismi, contro le logiche ispirate a preferenza di persone, contro le tentazioni di vivere anche nella chiesa secondo logiche mondane. Lo stesso papa ha chiesto con forza che la chiesa sia “casa e scuola di comunione” (ibid. 43), luogo in cui esperire la koinonía e l’agápe, l’amore. Nella chiesa non c’è posto per l’atteggiamento di sufficienza di chi afferma di non avere bisogno dell’altro (cf. 1Cor 12,21), non vi è possibilità di dominare come fanno i grandi di questo mondo (cf. Mc 10,42-45 e par.); nella chiesa non è possibile contraddire quella comunione dei beni spirituali e materiali che il Signore ci ha chiesto come segno del nostro essere suoi discepoli (cf. At 2,42-45; 4,32-35; 5,12-16), né si può partecipare alla vita ecclesiale senza che un vero sensus ecclesiae sia anteposto all’appartenenza al gruppo o al movimento.
Ora, se i credenti vorranno vivere realmente la chiesa come casa di comunione, saranno chiamati a comportamenti nei quali la logica del sýn (“con”) e dell’allélon (“reciprocamente”) plasmi ogni giorno la vita ecclesiale. La chiesa non è opera di singoli, fossero pure guide carismatiche o grandi pastori; essa – come spesso abbiamo ripetuto su queste colonne – è sýn-odós, “camminare insieme” nella storia, verso il Regno: vescovo, presbiteri e fedeli, ciascuno con la grazia e il ministero suo proprio, ma tutti impegnati a vivere la comunione nell’unico corpo di Cristo. Solo se si apriranno concreti cammini di attuazione della comunione ecclesiale, potranno crescere delle comunità cristiane mature, e la chiesa potrà essere percepita come luogo in cui apprendere la comunione da parte delle nuove generazioni cristiane e di tutti gli umani, i quali cercano segni di comunione in un mondo solcato da rivalità e inimicizie. Secondo le parole stesse di Gesù, infatti, dalla qualità della comunione vissuta dai cristiani dipende anche il giudizio dei non credenti su di loro: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
Il concilio ha inoltre segnato la fine di una posizione difensiva, che concepiva la chiesa come cittadella arroccata e il mondo come suo insidioso nemico: la chiesa è dunque ritornata a dialogare con il mondo e i cristiani a essere tali nella società, senza evasioni né esenzioni. Se è vero che in termini quantitativi i credenti oggi sono meno numerosi di ieri, al punto da essere divenuti minoranza anche nei paesi di antica cristianità come l’Italia, sono però dotati di una consapevolezza della loro identità ben più profonda di un tempo. In tale condizione, il compito dei cristiani è quello di dialogare con tutti i loro contemporanei, di mettersi al loro servizio, prolungando così il servizio compiuto da Dio con la sua umanizzazione in Gesù. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Dio si è fatto uomo per servire noi umani, e la chiesa prosegue questa diaconia, facendosi serva di tutti e annunciatrice del Vangelo tra le genti: “Noi guardiamo al mondo con immensa simpatia. Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo” (Paolo VI, 6 gennaio 1964).
I cristiani sono dunque chiamati a vivere nella compagnia degli uomini, la loro polis è quella degli altri umani, diversi per cultura, fede, appartenenza etnica, lingua, e anche codice morale. I nostri fratelli e sorelle in umanità si domandano oggi, forse più di ieri: “Cosa posso sperare?”, e noi cristiani dovremmo esercitarci ad ascoltarli, ben sapendo che Cristo risorto può essere per loro speranza efficace che la morte non è l’ultima realtà, e che “lo Spirito santo offre a tutti la possibilità di essere associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Gaudium et Spes 22). Ora, tale comportamento può apparire in contraddizione con lo status viatoris del cristiano, costitutivamente straniero e pellegrino sulla terra (cf. 1Pt 1,1; 1,17; 2,11), condizione così riassunta dall’Apostolo Paolo: “La nostra patria è nei cieli” (Fil 3,20). Sì, la chiesa è pellegrina sulla terra, la sua cittadinanza è solo il cielo dove i cristiani “non sono più stranieri né pellegrini, ma concittadini dei santi e familiari di Dio” (cf. Ef 2,19). Queste affermazioni neotestamentarie non vogliono però invitare i discepoli di Gesù all’evasione dalla storia, bensì a restare fedeli alla terra mentre continuano a cercare le cose dell’alto.
Proprio vivendo questa fedeltà i cristiani, pur lottando contro gli idoli mondani e mantenendo vivo l’orizzonte escatologico, possono dare un contributo essenziale alla polis. Essa infatti abbisogna di cristiani autentici e maturi che, capaci di dedicarsi al bene comune, sappiano renderla più abitabile e si rendano artefici di una migliore qualità della convivenza umana: una convivenza maggiormente segnata dalle esigenze della giustizia, della condivisione, del perdono e della pace, e, come tale, in grado di contrapporre cammini comuni e condivisi alla barbarie incombente.
Come amava ripetere papa Giovanni, “non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo comprendiamo meglio”: oggi comprendiamo il Vangelo meglio di ieri, e proprio per questo è più grande il nostro debito verso gli uomini e le donne del nostro tempo. Quali autentici discepoli di Cristo siamo dunque chiamati a vivere quella che amo definire “differenza cristiana”, ossia un’esistenza diversa rispetto a quella di chi non si definisce cristiano. E questo non per un’ostinata volontà di distinzione, ma perché la vita dei cristiani, essendo modellata su quella di Gesù Cristo, è di fatto diversa dalla vita mondana: nessun disprezzo per gli umani nostri fratelli e sorelle, ma la lucida coscienza di essere chiamati a “stare nel mondo senza essere del mondo” (cf. Gv 17,11-16). O nella compagnia degli uomini sapremo essere come sale capace di dare sapore, oppure saremo quel sale di cui Gesù ha detto che, divenuto insipido, “serve solo a essere calpestato dalla gente” (Mt 5,13): non c’è una terza possibilità…