Dialogo con Padre Enzo Bianchi, di Felice Sblendorio - Bonculture - 24 Dicembre 2020
In un tempo di paura e dolore, anche il mistero del Natale diventa più fragile. Per illuminare e riempire con parole dense gli ultimi giorni di questo anno di poche speranze, Bonculture ha intervistato Padre Enzo Bianchi, monaco, saggista e fondatore di quel miracolo di fede e dialogo che è la Comunità Monastica di Bose.
La liturgia della notte, con le parole del profeta Isaia, proclama: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse». L’annuncio diventa più potente di quello fatto nella notte di Pasqua: allora era primavera, la vita era destinata a rinascere, mentre ora l’inverno è sempre più buio. La Chiesa, però, annuncia la Luce. Allora, serve davvero sia la speranza che la fede. In questo Natale le due virtù coincidono?
Viviamo un momento culturale in cui proprio la fede e la speranza sono virtù deboli: oserei dire che è più efficace la carità che le virtù della speranza e della fede, soprattutto in questo momento della pandemia in cui un po’ di solidarietà si registra ovunque. La fiducia nel futuro e negli altri è molto scarsa. Sembra quasi una contraddizione sperare in un domani migliore, un domani che sia aperto a una convivenza più bella e buona. Siamo in un momento di depressione delle speranze e della fede, e questo bisognerebbe ammetterlo per ritrovare il coraggio di incamminarci in un percorso di fiducia condivisa.
In questa cesura storica possiamo solamente sperare assieme?
Non bisogna mai dimenticare che si spera soltanto insieme. La speranza c’è quando si riesce a sperare con agli altri e per gli altri, altrimenti è asettica e muore per sé. In questi tempi abbiamo coltivato speranze individuali, esasperandole no al narcisismo. Noi, invece, dovremmo esercitarci nelle relazioni, nel dialogo, nell’ascolto. Se non ci sarà una mutazione che cambi drasticamente il modo con cui viviamo assieme agli altri non avremo speranza: saremo una società in decadenza. L’esercizio della speranza è uno degli ultimi orizzonti collettivi da ricostruire.
Nella prima ondata della pandemia le bare portate via dai militari ci hanno spaventato, mentre oggi ci siamo già abituati a quei morti. Abituati già al cinismo che vede ridimensionare il dolore per la perdita di queste vite solo perché la morte ha colpito i vecchi. Tutti gli altri, invece, pensano di farcela. Questo è un termometro che ci indica perfettamente il nostro poco senso dell’altro, la mancanza di responsabilità e di custodia per l’altro. Questa barbarie che si è insinuata in noi è preoccupante.
Soprattutto in questi giorni di Avvento, Papa Francesco ha richiamato alla sobrietà, al vero senso del Natale, «forse triste ma più autentico». Nel suo magistero la povertà ha assunto, sin dall’inizio, una centralità quasi ingombrante. Si potrebbe definirla una quarta virtù teologale?
Sì, non facendo della povertà un pauperismo. Se la povertà diventa ascetica, disciplinare, o semplicemente un non avere, non porta alla salvezza perchè non dà nulla agli altri. La povertà cristiana è condivisione, la gioia del dare più che del ricevere. Non facciamo della povertà cristiana una miseria ascetica triste e cinica che si chiude su di sé e non dà nessuna possibilità di amore nel rapporto con gli altri.
Quello di quest’anno sarà un Natale fragile?
C’è una stortura fragile che viene da tempo. In molti dicono: attendiamo che nasca Gesù. Un’assurdità, perché Gesù è nato a Betlemme oramai duemila anni fa. A Natale noi festeggiamo la memoria della sua nascita perché tutto il mistero cristiano invòca la sua venuta, una venuta nella gloria. Aspettare Gesù come si attende Babbo Natale è una stortura: Gesù è già venuto e, se verrà nuovamente, non sarà di certo a Betlemme, ma nella gloria. Nel frattempo, poi, il Natale si è secolarizzato, diventando così una festa intrisa di doni e consumi. L’unica cosa che mi rincuora è una certa intimità che si stabilisce con gli affetti, la famiglia, con tutte quelle persone con cui passiamo del tempo assieme per ascoltarci, guardarci in faccia, amarci. Questa intimità, che nessuno potrà toglierci nemmeno in questo Natale così doloroso, credo sia la cosa più importante da salvaguardare.
Il segno della salvezza di cui parla il Vangelo di Luca è un bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia: si è fatto uomo un bambino. Che cosa significa, oggi, la salvezza?
Uno dei temi con cui il cristianesimo oggi ha difficoltà, non dico a esprimersi ma addirittura ad avere una parola convincente, è proprio il tema della salvezza. Una parola che non si vorrebbe mai usare nell’ambito cristiano, perché pone subito una domanda: salvezza da cosa? La fede si trova all’interno di un tunnel. Come cristiani bisogna ricordare che salvezza significa salvezza dalla morte. La salvezza che ci porta questo bambino è una salvezza che si manifesterà con la sua vita: è lui che dà la vita ai morti, la salute ai malati, la vista ai ciechi, la purità ai lebbrosi. Il cristiano deve avere il coraggio di dire che la sua fede non ha paura della morte. La morte non è l’ultima parola, perché l’amore vince la morte. La vita è eterna, sennò i cristiani diventerebbero miserevoli come gli altri. La differenza sta proprio nel concetto di salvezza: noi, nonostante tutto, ci salviamo dalla morte. È questa la nostra fede.
La cultura occidentale è disabituata al pensiero della morte. Ma se la morte è il compimento personale di ogni singola esistenza, perché ci fa così paura?
Noi occidentali abbiamo rimosso la morte, e la morte in questi ultimi decenni è diventata più oscena del sesso. Viviamo in un eterno presente che ci illude di scansare la nostra ne. Tutto questo ci rende disumani perché ci trasforma in persone che vogliono superare i limiti, vivendo senza limiti: esseri immortali che vivono la loro vita senza responsabilità, non impegnandosi né per sé e né per gli altri. Così diventa difficile fare un discorso sul cristianesimo che parla di salvezza dalla morte. L’unica salvezza che ci dà il cristianesimo è la salvezza dai mali, che si combattono con il perdono e la remissione dei peccati. Le altre salvezze ce le diamo da soli.
Prima parlava della vecchiaia, un tema a lei caro a cui ha dedicato un libro, “La vita e i giorni”, in cui sottolineava l’importanza di questo tempo della vita così prossimo alla finitezza e al limite. La vecchiaia è un tabù perché è in costante dialogo con la morte?
Sì, la morte opera sempre su chi è più vecchio. Il rischio è di abbandonarsi alla morte, non opporle resistenza. In realtà si tratta solamente di accettarla come un ciclo della vita, sentendoci all’interno di genealogie, di storie più ampie di generazioni. Cocreature insieme a tutte le altre del mondo che hanno vita, crescita e morte. La vecchiaia è un tempo da vivere in pienezza, riempiendolo di significati, rapporti, cercando di dare eredità a quelli che restano attraverso una trasmissione. Se riusciamo a trovare chi accoglie.
Perché la vecchiaia impaurisce questa società così narcisista?
Impaurisce per due cose. La perdita dell’autonomia, che strappa i vecchi dalla vita quotidiana, dagli affetti, dalla famiglia provocando un dolore estremo. La seconda è la paura della sofferenza. Il dolore fisico che accompagna le malattie, con il rischio dell’accanimento terapeutico e di una cultura del dolore professata nelle nostre strutture sanitarie, spaventa. La malattia diventa un punto oscuro. In molti si augurano una morte improvvisa un po’ prima che si finisca in balia degli altri o in preda a sofferenze che temono di non saper combattere.
Il virus ha provocato la morte di molti vecchi. In tanti hanno minimizzato la ne di queste vite solo per un dettaglio anagrafico. Lei ha scritto: «siamo quasi colpevoli di essere in vita». Anche su di sé ha percepito questa colpa?
Francamente qualche volta l’ho sentita, soprattutto perché ho quasi settantotto anni. Quando si è detto che se muore un vecchio non succede nulla, mi sono sentito un sopravvissuto, un colpevole. Non è mai bello essere considerato uno scarto della società. Io ho abbastanza forza interiore per non abbattermi, ma vedo altri vecchi in condizioni di precarietà, solitudine, abbandono. Quelle parole hanno colpito molti di loro. In questi mesi ho visto occhi inumidirsi, per poi passare ai singhiozzi. Per i vecchi non è facile vivere questo tempo, mi creda.
Non solo ai tanti vecchi, ma quasi a tutti noi quest’anno mancherà la gioia condivisa del Natale. Secondo lei è possibile essere felici da soli?
Credo di sì. Io farò un Natale da solo, come all’inizio della mia vicenda comunitaria a Bose. Cercherò di pregare, pensare, fare qualche telefonata alle persone che amo, a quelle che sono sole e magari nessuno raggiunge e, certamente, cercherò di farmi un pranzetto che mi dia un po’ di festa. Farò questo nella luce della fede, ringraziando il Signore che è venuto fra noi. Il valore del Natale è il ringraziamento dell’uomo che non è più senza Dio, e di Dio che non è più senza l’uomo. Gesù è l’uomo Dio in mezzo a noi.
Per molti, anche il Natale sarà un momento di silenzio e solitudine. Lei che ha un rapporto quasi intimo con queste condizioni ha capito perché la solitudine e il silenzio ci angosciano così tanto?
Per chi vive costantemente nel rumore e nel chiacchiericcio, il silenzio angoscia. La solitudine imposta poi diventa insopportabile, negativa. Occorrerebbe addomesticare la solitudine e il silenzio. Sono come una bestia selvatica che fa paura e magari ringhia, ma una volta che la si addomestica diventa una presenza necessaria. La solitudine ci permette di abitare noi stessi, di conoscerci. Il silenzio, invece, ci aiuta a sentire le voci più flebili, deboli, le voci di ogni cosa che non avremmo ascoltato. Il silenzio e la solitudine sono un arricchimento, mai una perdita.
Nel silenzio maturano le domande e le risposte su una vita intera. Le risposte ad alcune domande sulla sua fede in questo percorso di vita sono cambiate?
Sì, sono cambiate. La vecchiaia cambia la fede e la vita cristiana. Le domande di oggi sono dedicate soprattutto a chi lascio qui: lasciare gli amici non è facile, è come perdere il proprio corpo, le proprie membra. Molti dubbi mi attraversano, lasciandomi una domanda frequente sul Regno, sull’aldilà. Che cosa ne sarà di me? Sarò degno? Entrerò nella misericordia di Dio? Spero sia proprio l’immagine di un Cristo con le braccia aperte quella che mi aspetterà aldilà del fiume della morte.