di Alain Durand
frate domenicano - La Tourette - Lione
«La cultura cristiana è in netto regresso, in particolare tra i giovani»: è il titolo di un articolo pubblicato su “Le Monde” del 14 agosto, nel dare i risultati di un sondaggio dell’IFOP realizzato all’inizio di agosto 2020. Il commentatore Jérôme Fourquet scrive: «C’è un fenomeno globale di secolarizzazione della società. A molti, non interessa granché conoscere quella cultura, che è diventata una lingua straniera, o addirittura sconosciuta, alla gran parte delle giovani generazioni».È la situazione in cui ci troviamo.
In questo sondaggio si parla di “cultura cristiana” e non di “fede cristiana”. Si può avere una buona cultura cristiana senza avere la fede, mentre l’inverso non è praticamente possibile, poiché la fede nasce dalla parola e tale parola contiene necessariamente elementi di conoscenza e quindi di cultura.
Negli anni scorsi ci sono già stati molti altri sondaggi che indicavano un declino continuo della pratica religiosa e dell’adesione ai dati della fede. Vi sono buoni motivi di ritenere che questa tendenza proseguirà. Per coloro che sono credenti, questa situazione è una vera sfida, senza contare la sofferenza che può comportare, in particolare per le persone anziane che constatano l’abbandono della religione nei loro figli e ancor di più nei loro nipoti. Il problema è sapere come sia possibile oggi comunicare la fede, quale parola e quale testimonianza potrebbero superare questa mancanza di interesse evidente per le realtà della fede.
La secolarizzazione è un dato di fatto. Bisognerebbe sapere come far nascere un interesse per la questione Dio al di fuori di qualsiasi percorso religioso. Ma è possibile? Il problema non è del tutto nuovo, poiché fu posto profeticamente da Dietrich Bonhoeffer, le cui Lettere dalla prigione sono imprescindibili. Senza dubbio non c’è altra possibilità per far cogliere qualcosa della fede che parlare di Dio a partire dalle nostre realtà umane. La situazione attuale ci invita a superare un modo di procedere tradizionalmente deduttivo che consiste nel partire da un Dio definito in via preliminare per dedurne in seguito una “visione cristiana” dell’uomo. Non si tratta di parlare dell’uomo a partire dalle realtà religiose. Si tratta invece di parlare di Dio a partire dall’uomo. La questione Dio non può avere senso se non nel prolungamento della questione uomo. Si situa nel suo sviluppo. Dio diventa ciò che costituisce il cuore della consistenza umana. Smette di essere colui a partire dal quale si potrebbe dedurre ciò che è l’uomo, poiché è colui il cui volto si costruisce a partire dalla nostra umanità. Sì, è proprio a partire dall’uomo che possiamo conoscere qualche cosa di Dio. Tale percorso non fa che conformarsi al fatto della rivelazione di Dio nell’uomo Gesù. È proprio a partire da questa umanità singolare che è quella di Gesù di Nazareth che si delinea il volto di Dio. È vero a tal punto che Gesù dichiara in Giovanni 14,9: «Chi ha visto me ha visto il Padre». Parola che si potrebbe definire, a partire dalle nostre abitudini religiose, “riduzionismo inaccettabile”. «No», potremmo ribattere a Cristo, «chi ti ha visto non ha visto il Padre, il Padre è qualcun altro, qualcuno che non si ha il diritto di confondere con te! Saresti forse il falso profeta di un Dio senza trascendenza? Noi ne abbiamo abbastanza di questo richiamo permanente all’umano, noi abbiamo bisogno di un Dio altro, di un Dio che ci elevi l’anima verso l’alto, lontano dalle nostre valli di lacrime. Abbiamo precisamente bisogno di qualcosa di diverso dall’umano, ed ecco che tu arrivi ad abbassare le nostre aspirazioni fino a pretendere che basti vedere te, l’uomo di Nazareth, per vedere Dio. Che appiattimento! Che restringimento! Noi speravamo di elevarci verso le sfere celesti e tu ci rigetti terra terra!».
«Per di più, l’uomo che tu sei e a cui hai osato ridurre il Padre ha perso sulla Croce ogni attrattiva umana. Quest’uomo è diventato l’ultimo di tutti, il flagellato, il condannato, e tu vorresti che si riconduca Dio a tale decadenza! No, bisogna che manteniamo la distanza, l’abisso tra te e Dio, tra l’uomo e Dio. Altrimenti siamo perduti. Non ci sarebbe più motivo, allora, di aggrapparci a Dio, se Dio ci assomigliasse a tal punto! Abbiamo bisogno di un Dio altro, di un vero Dio, di un Dio che non sia un uomo. Soprattutto non un uomo umiliato, straziato, martoriato, ucciso. No, noi abbiamo bisogno di un Dio forte, di un Dio onnipotente, di un Dio raggiante, capace di venire a soccorrerci invece di quel Dio umile che viene a condividere la nostra sorte». Ma non è proprio quel Dio lì, il Dio delle religioni, il Dio prestigioso, il Dio potente, che ha abbandonato il nostro universo? Non è forse lui il Dio che non interessa più alla gente a dispetto delle richieste religiose di un numero sempre più ridotto di persone? Non è, insomma, il Dio della religione, quel Dio onnipotente, glorioso e condiscendente, a non essere più credibile per la maggioranza dei nostri contemporanei?
Prendiamo, come punto di partenza, il fatto sempre più evidente che ciò che interessa gli uomini di buona volontà è poter condurre un vita pienamente umana, senza fanfare, una vita con le sue gioie semplici e le sue piccole felicità quotidiane, una vita in cui possiamo vivere nella dignità, in cui possiamo partecipare al banchetto della vita assaporando le dolcezze della terra, la bellezza delle cose e il calore delle relazioni, una vita dove ognuno si fa carico di costruire la fraternità umana. Tutto questo può riempire le nostre vite? Perché relativizzare il nostro modo di vivere, a partire da un punto di vista che sarebbe quello di un Dio esterno che propone qualcosa di molto più grandioso?
L’umano, a partire dal quale Cristo ci parla di Dio e ne delinea il volto, è fatto di tutto ciò che dà valore alla nostra vita, come dava valore alla sua vita. Non c’erano solo grandi cose nella sua vita, quelle attribuite ai grandi personaggi, c’erano tutti quei gesti semplici e amicali che creano fraternità, c’era quell’attenzione alla sofferenza altrui che era il primo passo effettuato per dare sollievo alla tragedia umana, c’erano anche quei pasti e quelle bevande che lui apprezzava al punto da essere trattato da mangione e beone dai suoi detrattori. C’era l’accoglienza incondizionata dei feriti dalla vita, quel profumo sparso sul suo capo, quei pasti condivisi con coloro che non avrebbe mai dovuto frequentare secondo la morale vigente degli uomini religiosi.
Sì, tutto questo ci rinvia ad un altro Dio. Un Dio umano, un Dio vicino, un Dio che vacilla con noi ricolmandoci al contempo di tenerezza. Questo Dio non si impone. Mi guarderei assolutamente dal farne un Dio necessario. No, è addirittura un Dio facoltativo, che cioè lascia all’uomo la facoltà di lasciarlo da parte. È un Dio di cui si può fare a meno, anche se lui non può fare a meno di noi. Un Dio che posso incontrare solo scoprendo al contempo che io sono infinitamente prezioso ai suoi occhi. È un Dio che scalda il cuore, un Dio che permette la vita, un Dio che non cerca di cogliere in fallo nessuno, un Dio che si nasconde al cuore di ogni relazione di fraternità, un Dio che dilata tutta la ricchezza dell’umano, perché è lui stesso la pienezza interiore dell’umano. È un Dio di cui è possibile parlare umanamente, un Dio che si lascia abbordare senza che lo si sappia, un Dio che non teme di lasciarsi incontrare coprendosi di anonimato quando un uomo, qualunque sia, credente o non credente, accoglie un altro uomo, qualunque sia, credente o non credente. È un Dio che si scopre nel “sussurro di una brezza leggera” (1Re 19,12) e non nella tempesta, nel lampo, nel terremoto, nello tsunami, nei carri armati, nella violenza delle dittature, nella barbarie degli attentati. Un Dio così discreto che è presente, anche quando noi non ne sappiamo niente e non proviamo niente. Questo Dio è un Dio sorgente di ciò che c’è di più umano nell’uomo. È la dimensione ultima della mia stessa umanità. La mia speranza è che quel Dio lì susciti nel nostro cuore il desiderio di incontrarlo, in maniera del tutto diversa da ciò che potrebbe fare, dall’alto della sua grandezza, un Dio sovrano cristallizzato nell’assoluto. Noi siamo responsabili dei tratti del suo volto quando parliamo di lui. Tutto il resto appartiene a lui.